LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE PER GLI ITALIANI?                                  


Tutte le TESTIMONIANZE riportate sono tratte dal volume LE RAGIONI DEI VINTI di Rossana Maseroli Bertolotti e Liano Fanti. Il volume di 201 pagine può essere richiesto al CENTRO STUDI ITALIA, al costo di lire 30.000.

LE TESTIMONIANZE TRATTE DAL LIBRO E RIPORTATE NEL NOSTRO ARCHIVIO SONO STATE NECESSARIAMENTE SUDDIVISE IN DUE PARTI.
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da LE RAGIONI DEI VINTI
 
 
TESTIMONIANZE
LEGENDA:
    Alcuni testimoni hanno fatto nome e cognome dei responsabili dei fatti oggetto di questo studio. I nominativi sono stati sostituiti dal simbolo (* * ).

TESTIMONIANZE di:

 Ing. Riccardo Barbieri Manodori
 
 
    «Richiesto di fornire la mia testimonianza sul sacrificio di mio fratello Leopoldo Barbieri, ritengo doveroso premettere un pensiero riverente per tutti i Caduti reggiani dal 1943 al 1946, ricordati nel volume édito a cura della Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della R.S.I., del quale il volume scritto da Rossana Maseroli Bertolotti rappresenta un opportuno e coraggioso arricchimento storico e testimoniale.
    Un pensiero particolare va a Francesco Cigarini, presidente reggiano dell’Associazione, che ci è mancato nell’ottobre del 1995, e di cui il 16 febbraio 1945 furono uccisi il padre, la madre, il fratello maggiore ed il fratello minore; unica superstite la vecchia nonna, pur gravemente ferita.
    La mia premessa vuol significare come la memoria dei nostri Morti rappresenti la nostra ricchezza interiore, un’eredità che noi dobbiamo lasciare alle generazioni future, affinché all’Italia odierna succeda nel tempo un’Italia dei Valori, una vera Patria. Quella Patria per cui è caduto mio fratello Leopoldo, come sta scritto nel diploma di laurea honoris causa rilasciatogli alla memoria il 3 febbraio 1953 dall’Università di Firenze, unico documento di pacificazione a me noto che riconosce un valore anche al sacrificio dei nostri Caduti.
    Leopoldo, il 9 ottobre 1943, apriva con me la Casa del Fascio di Novellara. Nonostante la giovane età fu eletto Segretario del Fascio di questo paese, a cui dedicò ogni attività, volta specialmente alla pacificazione degli animi. Ne è prova la lettera del febbraio ’44 inviata all’avvocato Franco Mariani, con la quale richiedeva a gran voce che si evitasse la proposta del comando tedesco di trasferire parte delle officine “Reggiane”, semidistrutte dai bombardamenti a tappeto del 7 e 8 gennaio, nelle officine “Slanzi”, ubicate nel centro di Novellara, all’ombra del Campanile, bersaglio facile per un bombardamento distruttivo. Anche un libro scritto da partigiani novellaresi cita la lettera. Non credo che il pericolo sia stato evitato solo grazie all’atteggiamento di mio fratello: sta comunque di fatto che la proposta non ebbe seguito.
    Nell’ottobre del ’44 Leopoldo fu “giubilato”, perché era insorto contro la fuga a Soncino della Brigata Nera “Ferri” e perché mal sopportava l’organizzazione militare delle Brigate stesse che avrebbero dovuto avere l’unico scopo di armare i fascisti isolati, facile bersaglio delle imboscate partigiane. Ricevette tuttavia il delicato incarico da parte del Capo della Provincia di svolgere un’indagine sulle possibilità di un accordo che evitasse un bagno di sangue alla fine della guerra. L’indagine ebbe risultato del tutto negativo, come si poté verificare all’atto della strage scientificamente preparata e realizzata con gelida determinazione e ferocia.
    Nonostante dunque la consapevolezza del futuro che lo attendeva, il 20 aprile ’45 Leopoldo rispose al mio invito di unirsi a noi, armati ed organizzati, nel ripiegamento, con un netto diniego: “Resterò con i miei di Novellara: non voglio che mi si dia del vigliacco”.
    Il 22 aprile venne catturato dopo una giornata trascorsa quasi normalmente. Mi scrisse il funzionario del Municipio Gaddi: “La mattina della domenica, quando già si sentiva lontano il rombo dei carri armati, Leopoldo, all’apertura della biblioteca municipale, mi restituì due volumi dei discorsi di Mussolini, poi si allontanò”. Verso mezzogiorno, quando i tedeschi avevano già abbandonato Novellara, alla signora Luppi che lo consigliava di andarsene, come già aveva fatto suo marito, oppose un secco rifiuto: “Non ho nulla da temere: rimango”.
    La sera venne catturato; non so ancora se da angloamericani o da partigiani e poi rinchiuso nei locali della Rocca. Nel pomeriggio del 23 aprile, poiché protestava la sua coscienza di aver agito per la pacificazione degli animi, sostenendo che la gente gli voleva bene, fu gettato alla mercé dei partigiani dal comandante della piazza, colonnello Soragni. Il comandante partigiano Crotti mi ha personalmente dichiarato, come già aveva fatto nell’intervista rilasciata a Massimo Storchi dell’Istituto Storico della Resistenza, che la sua determinazione di abbandonare ogni incarico politico e militare maturò proprio assistendo agli insulti, alle percosse ed alle violenze subite da Leopoldo in quel pomeriggio. La signora Antea Lombardini Bonazzi mi scrisse di averlo visto, unico in piedi, sul camion che lo portava verso il suo destino. Così si esprimeva poi don Sante Pignagnoli, prete partigiano: “Guardate quel ragazzo, è come Cristo sulla strada del Calvario”.
    La notte del 24 aprile fu portato a Fabbrico, alla villa Guidotti, sede del comando partigiano, a disposizione del comandante Silvio Terzi, che lo conosceva, essendogli stato a fianco come Commissario Prefettizio del Comune di Fabbrico (Il Terzi passò poi nelle file partigiane).
    Alla signora Guidotti che gli aveva portato il Vangelo, Leopoldo disse: “Hanno ucciso Gesù: crucifige. Tre giorni fa eravamo in auge, ora ci massacrano… Si ripete la storia!”.
    E’ evidente che Silvio Terzi, nel nome della passata collaborazione ed amicizia, aveva intenzione di salvarlo. Infatti raccomandò al partigiano Livio Vezzani, che me lo ha riferito, di non lasciarlo avvicinare da nessuno. Purtroppo Terzi dovette allontanarsi, perché chiamato a Reggio per fronteggiare i franchi tiratori. Leopoldo rimase prigioniero qualche giorno. Probabilmente nella notte dal 27 al 28 aprile alcuni partigiani di Novellara, approfittando dell’assenza del Terzi, lo prelevarono contro la volontà del partigiano Dante Sabatini, addetto alla sua custodia. Il Sabatini, sotto la minaccia di una pistola, dovette cedere. Leopoldo fu caricato su un camioncino 103 FIAT.
    Sul luogo dell’uccisione e quello del seppellimento una ridda di voci e supposizioni. Vane le ricerche effettuate, vani i numerosi esposti alla Questura, vano l’interessamento del Vescovo di Guastalla e del capitano Vesce.
    Chi sapeva taceva, chi sa ancora tace, o per omertà, o per paura, o per colpevolezza.
    Unico, chiuso nel suo dolore, il nonno Bernardo non lasciò nulla di intentato, facendosi accompagnare sui luoghi di ritrovamento dei cadaveri con un’auto pubblica su cui faceva issare una bara, e portando sempre con sé un campione del vestito indossato di Leopoldo. Con l’aiuto del bisturi, avvalendosi della sua esperienza di chirurgo, cercava di riconoscere i resti ostacolato, in quest’opera pietosa, dagli insulti della masnada, a stento trattenuta da due carabinieri.
    Ogni volta la bara tornò vuota.
    Leopoldo aveva a suo tempo scelto il nome da dare alla piazza del suo amato paese, Novellara: piazza Unità d’Italia.»

Dott. Eolo Biagini, classe 1933. Già Sindaco di Carpineti
    
    
     «Nel 1944-45 ero un bambino, ma qualche ricordo l'ho anche io. Una mattina ero andato a servire messa, come sempre, nella chiesetta di Onfiano, mio paese natale. Stavo tornando a casa, quando, in località Signorana ho sentito uno sparo; corso a vedere cosa succedeva, ho visto una scena che è rimasta ben incisa nella mia memoria sensibile di bambino: un uomo riverso a terra, in un lago di sangue; si trattava di una persona ben conosciuta; certo Claudio Caroli, gestore di un piccolo negozio di alimentari. La moglie, Diva Lamberti, gli teneva la testa e gridava disperata. Dal piccolo borgo - un pugno di povere case - accorreva, intanto, gente; vicino al corpo insanguinato due partigiani. Uno del paese mi ha gridato di andare di corsa a chiamare il prete, don Geminiano Piagni, il quale è arrivato poco dopo per dare al morente l'estrema unzione. Dopo di che mi ha trascinato via, accortosi probabilmente del mio stato di choc. L'ucciso, credo, aveva aderito alla R.S.I. iscrivendosi alla Guardia Nazionale Repubblicana; di fatto, era sempre nella sua piccola bottega, affacciata sul polveroso viottolo (non ancora asfaltato) che portava al paesino. La versione ufficiale data dai partigiani è stata questa: mentre passava di lì (per puro caso) ad un patriota è caduto il fucile; cadendo, è partito, accidentalmente, un colpo, che ha raggiunto in pieno il Caroli uccidendolo; la vox populi, invece, dava un'altra versione. Il fucile sarebbe davvero caduto al patriota, ma da dietro la siepe il secondo avrebbe sparato al Caroli. Certo non è stato, in ogni caso, un atto di grande coraggio... vista la situazione! Il Caroli è stato poi sepolto nel piccolo cimitero di Onfiano, dove una lapide, curiosa , porta scritto:
    "Claudio Caroli, morto non volendo 
    per una disgrazia
    di un fucile caduto a un partigiano"
    L'italiano sconnesso e scorretto non riesce a nascondere quello che appare tra le righe: non si poteva alludere, non si poteva dire la verità; solo dietro ad uno strafalcione, l'attento occhio del popolo avrebbe potuto capire il doppio senso... e la verità!
    Per anni, anche dopo la fine della guerra, qui da noi - e non solo - la gente ha dovuto fare finta di non sapere, di non vedere, di non capire... La posta in gioco non era la sola tranquillità. I montanari sono per loro natura arguti, attenti e furbi. Hanno capito alla svelta che per salvare la pelle - ma troppo spesso non ci sono riusciti - bisognava essere sordi, ciechi e muti. E' stato subito chiaro che ad una dittatura se ne voleva sostituire un'altra... per fortuna, le elezioni del 1948 hanno impedito che alla ventennale tragedia del fascismo subentrasse la possibile tragedia del comunismo.»

Beatrice Bozza
    
    
    «Ho conosciuto mio marito, Ettore Pelli, nel 1943; io ero una ragazzina, appena sedicenne, e mi sono innamorata subito di lui: un bel ragazzo, allegro, spiritoso, intelligente. Capelli lunghi (per allora), modo di fare coinvolgente, Ettore faceva di professione il giornalista: dico meglio, era caricaturista in un giornale. In un primo tempo nella "Tradotta", poi, dall'8 settembre 1943 al "Bismantova". La sua famiglia era di sinistra: pensi che suo padre, pur essendo disoccupato, non aveva voluto prendere la tessera del fascio; Ettore non era un fascista tutto d'un pezzo; come tanti, per mangiare e per il quieto vivere ad un certo punto ha dovuto scegliere una via politica; e dopo l'8 settembre 1943 ha, suo malgrado, scelto. Le spiego il perché: era uscito, in quei giorni, un bando tedesco di arruolamento: mio marito non si era presentato. I tedeschi, allora, l'hanno arrestato, tosato a zero e minacciato di mandarlo in Germania. A questo punto Ettore si è iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana. Ricordo che indossava una camicia verde e lavorava, con la qualifica di sergente, al Comando situato nell'attuale istituto "Filippo Re", in via Leopoldo Nobili. Era alle dipendenze del dottor Rapaggi e si recava al Comando quando era libero dal giornale; continuava infatti ad esercitare la sua professione di caricaturista. Spesso lo andavo a prendere all'uscita del lavoro: andavamo insieme verso casa, e ricordo il mio giovanile orgoglio di passeggiare con un ragazzo così bello: un gagà, dicevano le mie amiche, alludendo alla sua fortuna con le donne, ma io non ci badavo; ero innamorata, eravamo innamorati, e questo ci bastava.
    Il 1944  è passato tranquillo; eravamo insieme ogni sera, e a me non sembrava neanche che ci fosse le guerra. Ettore, ripeto, faceva parte della G.N.R., e non di squadre di picchiatori e di rastrellatori. Col suo carattere, con la sua "verve", era lontano un anno luce dal poter essere un militare vero; come suo fratello Cesare, anch'egli assunto nello stesso corpo militare, bravo tenore; quella del canto era la sua vera grande passione. Ettore e Cesare erano gli unici figli della famiglia Pelli. Mio marito a causa della sua professione, era a conoscenza di molte notizie "ufficiose": so di sicuro che più volte ha avvisato dei suoi amici partigiani in occasione di imminenti rastrellamenti; so che ha collaborato con loro più e più volte: e questo perché non era quel fascista "caldo" che poi la memoria storica reggiana ha tramandato. Non portava armi. Nel gennaio 1945 ci siamo sposati e siamo andati ad abitare in via Poli al numero 1, in casa di una zia. Eravamo felici e, lo ripeto, ogni sera Ettore dormiva con me: mai, dico mai, ha passato una notte fuori casa. Il giorno della Liberazione, il 25 aprile, verso le 10 di mattino siamo usciti per andare in centro; arrivati in via L. Ariosto abbiamo incontrato un gruppetto di partigiani: dal gruppo si è staccato un giovane alto, della cui identità sono a  conoscenza, che ha cominciato ad inveire contro mio marito; dalle parole presto è passato ai fatti, schiaffeggiandolo, fino a che alcuni suoi compagni, che se ne stavano a guardare col mitra puntato, gli hanno intimato di smettere, sostenendo che Ettore non aveva commesso particolari reati. Spaventati siamo tornati a casa. Io non capivo il perché di quel gesto, e a dire il vero, anche mio marito era sconcertato: più che il dolore fisico, l'aveva prostrato l'idea di essere in pericolo, di poter essere malmenato da coloro che aveva così spesso aiutato e di cui mai aveva causato il male. Abbiamo allora chiamato suo fratello Cesare e, tutti insieme, abbiamo aspettato un amico comunista, il fornaio (* *), che avrebbe dovuto accompagnarli al Comando partigiano per testimoniare per loro, per garantire sul loro operato.
    Il giorno dopo, il 26 aprile, di primo pomeriggio, invece dell’amico atteso, si sono presentati alla porta di casa nostra sette-otto partigiani, armati, che non conoscevamo. Poco prima c'era stata una sparatoria, vicino a casa, ma non sapevamo neppure cosa fosse successo; noi eravamo ben chiusi in casa, con la zia, e con la famiglia del piano di sopra, che, anche allora, ha testimoniato questa verità.(1)
    Gli uomini hanno perquisito la casa, a tappeto, ma non hanno trovato armi; c'era, invece, la mia bambina di tre mesi che dormiva tranquilla nella culla. E due giovani spaventati: mio marito aveva 25 anni e suo fratello 27. Non sono stati cattivi con noi, anzi, hanno chiacchierato un poco, facendo domande ed informandosi della loro attività, poi li hanno invitati a seguirli al Comando. Mio marito mi ha detto di stare tranquilla, e di aspettarlo, a metà pomeriggio, in casa di sua zia, in via del Guazzatoio. Si sono quindi allontanati verso il centro. Ma io non trovavo pace; mi sentivo in ansia, e pur essendo giovanissima, capivo che il momento era terribile e che poteva capitare qualunque disgrazia. Inforcata la bicicletta, mi sono diretta in centro dove ho trovato mia cugina e mia zia che piangevano a dirotto, disperate, perché avevano saputo che erano stati uccisi i fratelli Pelli, a S. Pietro. Sono corsa sul posto col cuore che sembrava impazzito dal dolore e lì ho visto, a terra insanguinati, tre o quattro uomini. Uccisi. In un fosso il cadavere di mio cognato Cesare. Di mio marito neanche l'ombra. La sera stessa, alcuni uomini si sono presentati a casa di mia suocera, in via S. Agostino, a reclamare i vestiti del figlio, che dicevano essere nelle loro mani, prigioniero. La richiesta è stata prontamente eseguita dalla povera madre. Per tutta la notte io ho sperato e pianto; la mattina seguente, di buon'ora, sono tornata sul luogo dove ho trovato il cadavere di mio cognato: nel canale che scorreva al posto dell'attuale Banca (alla rotonda di S. Pietro), seminascosto e privato di orologio, portafogli e scarpe, giaceva il cadavere di mio marito.
    Sono rimasta vedova a diciassette anni con una bimba di tre mesi. Questi i fatti. Voglio aggiungere che quando mia cugina, Silvia Bartoli si è recata al Comando partigiano per domandare il perché di quelle morti, le è stato risposto che dallo stesso non è mai stato dato ordine di uccidere i Pelli.
    Sarà. E allora chi è stato? E perché? Ettore, con la sua professione, poteva aver dato fastidio a qualcuno; so che la sua penna era a volte ironica, ma mai pungente, cattiva. Perché uccidere un giornalista? Non si uccide con la penna, io credo. Molto più tardi, (quasi due anni dopo) ho saputo il nome degli assassini ed anche la motivazione: mio marito e mio cognato sarebbero stati "franchi tiratori", cioè avrebbero sparato dai tetti contro i partigiani l'ultimo giorno di guerra. Ma da quali tetti, domando, se eravamo tutti in casa, disarmati, e se per andare in solaio bisognava passare dall'appartamento della famiglia che abitava sopra di noi e che, di tendenze antifasciste, ha poi testimoniato l'assoluta non credibilità di questa tesi? Ancora oggi non riesco a darmi pace; guardi, per 50 anni non ho parlato, perché sono cattolica e non voglio vendette di nessun tipo. Chiedo solo agli assassini di mio marito (uno c'è ancora) di dirmi il perché di quella morte. Ettore non era nella Brigata Nera, non era nell'Ordine Pubblico, non partecipava a rastrellamenti, faceva il giornalista. Scriveva e disegnava; non ha sparato a nessuno dai tetti e neanche, credo proprio, da terra. Perché allora?
    So che la guerra è terribile e soprattutto la guerra civile. So anche che chi vince ha tutte le ragioni; quello che non riesco a capire è il fatto di certe morti; chi non è stato militare, chi non ha responsabilità dirette di delitti o gravi reati, deve essere risparmiato... il delitto di mio marito è stato un delitto di opinione, come quello di migliaia di reggiani che conosco e che incontro ancora, oggi ben inquadrati nella sinistra... e che fanno la voce grossa...quelli stessi che giravano in camicia verde col povero Ettore Pelli, che con lui giocavano a carte o al pallone... quegli stessi che con lui passeggiavano in via Emilia per corteggiare le ragazze... ma loro, il 26 aprile correvano esultanti col fazzoletto rosso al collo, mentre mio marito giaceva in un canale, morto.
    Io, oggi, non chiedo niente: non accetto questa logica del terrore; l'ho subita mio malgrado. Vorrei soltanto dire forte che mio marito non è stato un assassino ed invitare chi potesse dire il contrario - ma si faccia avanti con cognome e nome e prove - a spiegarmi il perché di quelle due morti.
    Io sono certa della non colpevolezza di Ettore e Cesare Pelli, così come i loro poveri genitori, morti pochi mesi dopo, di crepacuore.
    Dopo 50 anni, la storia deve, può e deve, rendere giustizia e riconoscere eventuali errori, se ci sono stati; non è giusto che il nome di mio marito venga associato a quello di un irriducibile assassino; questo è davvero troppo.
    Dimostri qualcuno che ho mentito, e mi rassegnerò; ma fino a che questo non si avvererà, l'omicidio di mio marito è da considerarsi un fatto "privato", un odio personale, un delitto inutile e senza senso. Anche per i suoi assassini.»
 
(1) Le signore Lidia e Paola Fiorenzuoli.

Maria Seglias, classe 1925
 
 
    «Provengo da una famiglia piccolo-borghese. Il nonno paterno era una Guardia Svizzera, che per ordine del Papa è stato poi trasferito a Bologna. Lì si è sposato ed è diventato amministratore del principe Ercolani. Mio padre, trasferito a Reggio Emilia, ha aperto una tipografia vicino alla Stazione ferroviaria; ma un giorno, per ordini superiori, gli hanno imposto di venderla al Partito Fascista, che ne ha fatto la sede del suo quotidiano, il "Solco Fascista". La tipografia, a dire il vero, gli è stata pagata, ma il babbo è stato costretto a retrocedere, dal punto di vista professionale: infatti, da proprietario è diventato impiegato. Con la cifra ricavata ci siamo comperati un piccolo fondo ad Albinea, sul quale il papà ha costruito una villettina nella quale passavamo i mesi più caldi dell'anno. Devo dire che il 23 aprile 1945 due partigiani si sono presentati ad Albinea con l'intenzione di portare via mio padre, accusato, pensi un po', di aver favorito i fascisti! Solo davanti alle lacrime ed alle suppliche della mamma, di mia sorella e mie, e dopo esaurienti spiegazioni, si sono convinti a lasciarci in pace, ma le garantisco che abbiamo passato una notte terribile! Appena diventata maestra sono stata assunta, quale impiegata, all'Unione Fascista Industriali, che aveva sede in via Emilia, proprio di fronte all'attuale Credito Emiliano; in ufficio con me c'era un certo (* *), uomo un poco rozzo e che aveva fama di manganellatore, oltre che di buon distributore di olio di ricino! Credo che nel 1922 si fosse meritato tale fama. Non ne sono sicura, però. Sicura sono invece di un suo gesto di grande umanità, che mi sembra giusto ricordare. Eravamo ai primi del 1942; io abitavo in via Porta Brennone, 31. Nella mia casa abitava anche una povera famiglia, composta di quattro persone: padre, madre, una bimba appena nata e la vecchia nonna. Il padre è stato mandato in Russia, e pochi mesi dopo la mamma è morta, sembra per conseguenze di parto; la piccola è rimasta con la nonna che però non era in grado di accudirla; io raccontavo di questa tragedia in ufficio e (* *), che stava ad ascoltare, col solito impeto ha detto: "Ci penso io!" Ha afferrato il telefono ed ha mosso mari e monti: ricordo il suo daffare, con politici e dirigenti del partito. Certo deve essere stato convincente se, nel giro di poche settimane, il milite richiamato in Russia poteva tornare a casa ed assistere la sua bambina.! E questa è solo una delle buone azioni che ho visto fare da (* *). Il 25 aprile 1945, è stato prelevato dalla cantina in cui si era nascosto, costretto a girare per la città cantando "Giovinezza" e quindi portato ai «Servi». Dopo atroci torture è stato ucciso; del suo cadavere è stato fatto scempio: infatti gli avevano infilato in bocca una forcella ed alcune donne, inferocite, gli sputavano nel cavo orale. Orrende scene di crudeltà che non si possono dimenticare. Dico questo non per polemica, o per gettare ombre sulla Resistenza; lo dico per dimostrare che, a volte, ci sono state persone che hanno pagato le loro colpe in modo spropositato. Come nel caso di Giuseppe Sidoli. Si diceva di lui che fosse un dongiovanni, un poco gradasso, ma, per quello che so io, non è certo stato un torturatore! Lo si vedeva ogni giorno in piazza del Monte, in divisa, molto appariscente e, devo dire, bello. Ma occupava un posto che nessuno, poi, gli ha perdonato. Certo non ha fatto come alcuni, sicuramente più colpevoli di lui, che se ne sono andati per tempo. Lui è rimasto, convinto forse della clemenza dei nuovi padroni e consapevole del fatto di non aver ucciso nessuno. Pensi che a quel tempo si diceva anche che il dott. Bolondi, medico dei «Servi», torturasse! Io che lo conoscevo bene, posso testimoniare che non c'era un medico così per bene ed onesto, incapace di viltà o di azioni criminose, rispettoso, fino in fondo, della deontologia professionale. Anzi, c'era: e si trattava di un bravo ginecologo, che mi aveva fatto nascere: il dottor Ernesto Vercalli. Era un grande amico di mio padre, che con lui faceva lunghe passeggiate in bicicletta ed interminabili partite a carte. Un medico serio, un montanaro tutto d'un pezzo che non faceva politica, ma il suo lavoro, e con coscienza. Una sera, tornando a casa, gli hanno sparato alla nuca. Sa perché? Perché non aveva voluto firmare certificati di falsa malattia ad alcuni operai delle Officine Meccaniche "Reggiane". Era un uomo giusto, per cui un malato doveva essere tale, se voleva stare a casa dal lavoro. Questa sua integrità gli è costata la vita. Ricordo la disperazione di mio padre e degli amici, ed erano tanti, che hanno seguito il suo funerale.
    Io sono stata una insegnante elementare per molti anni; ho cercato di essere sempre onesta e corretta nel mio lavoro, affinché i ragazzi che mi erano stati affidati sapessero come la guerra - specie quella civile - è terribile e che non doveva succedere mai più di vedere gli orrori a cui la mia generazione è stata costretta, suo malgrado, ad assistere. Sono state uccise persone per il loro credo politico e, dopo la liberazione, anche per spirito di vendetta e per odio personale, oltre che per invidia... Si era terrorizzati. Ho saputo di violenze inaudite, di folle inferocite, di donne che avevano perso ogni umana temperanza... Ho tenuto chiuse nel cuore, per 50 anni, delle immagini terribili... Spero che il tempo, che tutto guarisce, abbia chiuso molte ferite. Di certo non si chiudono se prima non si è fatta giustizia. E per questo c'è ancora molta strada da fare; gli storici devono rivedere la nostra storia più recente, perché mi pare che non sia stata del tutto obiettiva. In questo modo si uccide ancora, nella memoria di chi è restato a piangere.»

Dott.ssa Adriana Moratti, classe 1924
 
   
    «Sono nata e sempre vissuta - se si eccettua un periodo di lavoro a Toano - a Villaminozzo, dove ho esercitato per una vita la professione di farmacista.
    La farmacia per la mia famiglia è un'istituzione dato che la possediamo - e vi lavoriamo - da ben quattro generazioni. Nella casa costruita dal nonno abitavamo in stanze ariose ed accoglienti noi cinque sorelle, i nostri genitori, i nonni e due zii: una famiglia patriarcale. La mamma, Annetta Pedrazzoli, era maestra. Ha insegnato con amore e dedizione a molte generazioni di paesani. Il papà, farmacista, aveva anche ricoperto dal 1929 e per sette anni circa, la carica di podestà. Tutti e due erano buoni e intelligenti ed hanno lasciato, credo proprio di poterlo dire, un ricordo positivo nel cuore di tutti.
    La nostra famiglia ci ha cresciuto insegnandoci non tanto la gentilezza formale quanto il rispetto e la comprensione per ogni persona, ed una affettuosa disponibilità. Il paese era tranquillo, anche se povero come quasi tutti i paesi della montagna.
    Lo scoppio della guerra e la partenza dei giovani, in gran parte alpini, portò tanto dolore soprattutto quando dalla Grecia e dal fronte russo cominciarono ad arrivare luttuose notizie di morte; così, quando si arrivò all'armistizio dell'8 settembre 1943, un'ondata di euforìa e di gioia portò in molti la speranza che finalmente i soldati sarebbero tornati e la guerra finita. Purtroppo ben presto si vide che la guerra sul fronte continuava in condizioni ancora più tragiche; sulle nostre montagne, considerate da sempre luoghi tranquilli ed eventuale rifugio ai drammi dei bombardamenti delle città, si era improvvisamente creato un fronte più drammatico, difficilmente individuabile, in continuo movimento, che coinvolgeva comunque e sempre la popolazione civile, rendendola vittima indifesa dell'una e dell'altra parte. In ogni modo il 1943 finì in relativa tranquillità, ma il nuovo anno cominciò sotto cattivi auspici.
    In primis la morte di don Pasquino Borghi, fucilato il 30 gennaio 1944 dai nazifascisti. Don Pasquino dal 17 ottobre 1943 era stato trasferito da Canolo di Correggio a Tapignola, piccola frazione in quel di Villaminozzo. 
    Poiché parlava bene l'inglese, don Pasquino svolgeva opera di assistenza nei confroni dei prigionieri alleati (1); non solo, già dall'ottobre 1943 aveva aiutato i fratelli Cervi e da allora era diventato un coraggioso collaboratore dei partigiani della montagna. A dir il vero, lui aiutava tutti: a volte prestava persino le sue scarpe a chi doveva venire da Tapignola a Villaminozzo e ne era sprovvisto. Faceva parte del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) ed a nessuno negava aiuto.
    Io ero a quell'epoca la presidente della Gioventù Femminile di Azione Cattolica di Villaminozzo, e la sezione era intitolata a S. Agnese, la cui festa cade il 21 gennaio. Il nostro parroco, don Luigi Manfredi, aveva pensato di fare una "tre giorni" di predicazione per prepararci a questa festa e, come relatore, aveva invitato don Pasquino Borghi che venne e ci tenne una splendida lezione sulla carità. Ciò accadde il secondo giorno della predicazione, il 21 gennaio 1944, appunto. Mentre parlava a noi ragazze, alcuni militi e carabinieri si recarono a Tapignola e furono accolti dalle fucilate dei partigiani ospitati in canonica. Gli stessi militi, rientrati verso le 18 a Villaminozzo, andarono a bussare alla canonica chiamando fuori don Luigi.
     Gli chiesero se don Pasquino fosse lì e, avuta risposta affermativa, entrarono, lo presero e lo portarono in caserma dove fu picchiato e, in seguito, portato in carcere a Reggio Emilia. Tutti eravamo rimasti sgomenti ed esterrefatti. La mattina seguente mi recai da don Luigi: era seduto in cucina, presso il camino, e piangeva disperato. Mi disse che, se avesse immaginato una simile tragedia, non avrebbe certo ammesso la presenza in canonica del suo confratello; anzi, lo avrebbe fatto scappare da una porticina secondaria che dava in aperta campagna.
    Commentando i fatti, qualcuno insinuò che la cattura di don Borghi fosse avvenuta in seguito ad una delazione di don Luigi (2). Tale supposizione fu a quei tempi, ed è ancor oggi, una inimmaginabile follìa, perché don Luigi era persona preoccupata da una vita di condurre una esistenza evangelica, spinta fino al rigore nei confronti di se stesso, consapevole dei suoi compiti, contrario per natura ad assumere mansioni non legate alla missione di sacerdote.
    L'unica colpa, se si può usare questo termine, era forse una ingenuità che poteva avergli impedito di cogliere il mutamento totale della situazione politica, e la nascita del movimento partigiano.
    Nella primavera la situazione si fece ancor più difficile: Villaminozzo era importante per la sua posizione strategica e il presidio fascista era forte di uomini e di armi. Nelle prime ore della notte del 24 maggio i partigiani circondarono il paese, cominciarono a sparare e vi furono morti e feriti. Il giorno successivo il Tenente Aldo Galleni, comandante del presidio, uscì in rastrellamento, ma nei pressi del ponte della Governara i partigiani spararono con la mitragliatrice contro la corriera e lo uccisero insieme ad un ufficiale e a sei granatieri.
    Si vedeva ormai chiaramente che le forze partigiane erano superiori: quasi ogni giorno venivano fermate le corriere alla ricerca di militi o di persone giudicate sospette e così il 9 giugno 1944 il Colonnello Onofaro ordinò lo "svincolamento" degli unici due presidi rimasti: quello di Toano e quello di Villaminozzo. Il giorno dopo quel memorabile 10 giugno, i fascisti abbandonarono Villaminozzo che, poche ore dopo, veniva occupato dai partigiani.
    Alle 10 circa piombò in casa mia Fulmine con alcuni compagni; frugarono tutta la casa, gettando in strada gli abiti di mio padre ed appropriandosi degli orecchini della mamma e di alcuni altri modesti oggetti d'oro, pochi per la verità. Presero lo zucchero e il formaggio grana e si misero a mangiarlo parlando sguaiatamente davanti alla casa.
    Mio padre, già gravemente sofferente di cuore, vedendo tutto ciò che accadeva, piangeva e, sentendosi morire, mi chiese di portargli alcune fotografie. Guardandole con tenerezza, scrisse sul retro una dedica: "Il papà alla sua cara famiglia".
    Il gruppo di Fulmine se ne andò, ma poche ore dopo capitarono due partigiani che volevano soldi e gridavano con odio: "Quanto avete da darci?"
    Non essendoci che pochi denari, minacciarono di portare via me e mia sorella.
    Questo pericolo fu scongiurato perché mia zia, Emma Albareti, corse a chiamare e a chiedere aiuto a due nostri compaesani, Cecco Colombari e Peppo Coli. Questi nostri buoni amici parlarono in nostro favore salvandoci la vita: non lo dimenticherò mai.
    Nello stesso giorno 10 giugno 1944 i partigiani, dopo aver compiuto atti di vandalismo, bruciando sulla piazza documenti e incartamenti sottratti in municipio, andarono anche in canonica, mettendo anche lì tutto a soqquadro. 
    Prelevarono don Luigi e lo portarono a Lama Golese insieme ad altre persone (fra le quali Virginio Canovi, Aristide Mucciante e Nello Coloretti).
    Tre giorni dopo, a 57 anni, mio padre morì di crepacuore per il pensiero di lasciarci indifese, ben sapendo, lui che conosceva la guerra avendola vissuta nel 1915-1918 come capitano dell'esercito, a quali terribili conseguenze saremmo andate incontro in un mondo ribollente di odio e violenza.
    Per provvedere al suo funerale chiedemmo ai partigiani di lasciar tornare in paese don Luigi e ci fu concesso.
    Poco dopo il Vescovo, pensando di poterlo meglio proteggere, lo trasferì a Budrio di Correggio.
    La sera del 14 dicembre dello stesso anno 1944 don Luigi stava disponendo i fiori sull'altare: due sconosciuti arrivarono alla porta della canonica e chiesero di lui; chiamato dalla domestica egli si presentò subito: fu ucciso da una raffica di mitra, vittima di una odiosa calunnia. Aveva sessanta anni.
    La guerra è finita, ma ha lasciato cicatrici indelebili.
    Violenze, soprusi, ingiustizie sono state commesse da entrambe le parti belligeranti. Se i nazifascisti hanno perso, i partigiani non hanno vinto del tutto. Troppo sangue ha arrossato i nostri paesi, le nostre case. Non possiamo dimenticare anche se, cristianamente, abbiamo perdonato.»
 
(1) Don Borghi era collaboratore delle «A. Force», agente della quale, nelle zone montane, era don Domenico Orlandini, Carlo. Notizia contenuta in Nostri preti, di don Carlo Lindner, Ed. AGE, RE, 1950.
(2) ARTURO PEDRONI, su «Il Nuovo Risorgimento», 27 febbraio 1949, scrive «A Villa Minozzo si nascondeva il tradimento».

Zeno Algeri, classe 1926
 
 
    «Mio padre, Ugo Algeri, è nato a Scandiano nel 1901. La sua famiglia era povera, e, ancora piccino, ha perso la madre. Dopo il matrimonio del padre con una nuova donna, egli, maltrattato, se ne è andato a pascolare un gregge. Ha passato anni difficili, ma poi, per fortuna ha incontrato la mamma, l'ha sposata, ed è cominciato per loro un periodo buono, durato quasi vent'anni. Venuto a Reggio intorno al 1926, è poi andato a lavorare ai Sindacati - fascisti, naturalmente, dati i tempi - come capolega, cioè come collocatore di personale. Nei primi anni ‘30 la mia famiglia si sposta da Mancasale a Massenzatico, dove, nella piccola anticamera della casa viene istituito un "ufficio"; chiamiamolo così, il piccolo locale dove il papà riceveva i contadini che avevano bisogno di manodopera, o le mondine che facevano richiesta di andare nel Piemonte; tutti coloro, insomma, che avevano bisogno di lavoro, e che egli aiutava a trovare. Mio padre era un uomo serio, riflessivo, di poche parole, ma con noi, con la mamma, con mia sorella e con me, straordinariamente affettuoso. Forse la mancanza di affetti nella sua infanzia lo facevano un padre presente e tenero. Noi vivevamo sereni, e niente faceva presagire la tragedia che poi si è verificata. Era fascista, ci credeva. Nel 1935 è andato volontario in Africa, ma nel 1936, quando si è trattato di partire per la guerra di Spagna, si è rifiutato: ne aveva avuto abbastanza. Nel 1940 è stato richiamato in servizio, ma un anno dopo, data l'età, è stato trasferito a Reggio, presso la Torre del Bordello, in qualità di segnalatore di preallarmi. (Doveva segnalare, cioè, l'imminente arrivo di aerei anglo-americani). Faceva i turni: a volte arrivava a casa a notte fonda, in bicicletta, da Reggio.
    Vestiva in divisa, sì, ma era un semplice impiegato: in ogni modo, penso, se avesse compiuto azioni riprovevoli, i "patrioti" avrebbero avuto modo mille volte di sparargli dal buio di una siepe... Ma non ha mai avuto noie. Mai una minaccia, mai un disturbo. Era un uomo leale e corretto: quando è uscito il bando Graziani, mio padre mi ha lasciato scegliere se arruolarmi o meno; io mi sono dato alla macchia (anche per non veder piangere la mamma); lui ha accettato con serenità la mia decisione. Rispettava gli altri, e le loro scelte. Un giorno della primavera 1945 io mi trovavo con alcuni amici a casa di famosi antifascisti di Massenzatico, i Miari del Cantonazzo; ad un certo punto entra nell'aia una pattuglia - motorizzata - di Brigatisti Neri. Per il timore abbiamo cercato di scappare, ma quelli hanno fatto fuoco ed hanno acciuffato quattro di noi. Siamo stati condotti a villa Lombardini, vicino a villa Cucchi: lì ci hanno invitati a collaborare: tre hanno aderito, io no. E così le ho anche prese. Mio padre ha cercato di tirarmi fuori, ma non c'è riuscito. Non aveva certo un grande potere, questo voglio dire. Era una figura di secondissimo piano. Il 22 aprile sono stato rilasciato. Tornato a casa, dopo quattro giorni, ho accompagnato mio padre a villa Galloni, dov'era il comando del C.L.N.. Nella Commissione giudicatrice spiccava la figura del Toscanino: dopo un interrogatorio, accertata la totale mancanza di colpe da parte di mio padre, la Commissione lo lascia libero, assicurandolo che non avrebbe avuto noie, in quanto "libero cittadino". Eravamo tranquilli. Così, in questo stato d'animo siamo tornati verso casa con le nostre biciclette. Io avevo tre zie sposate a Milano, che avrebbero potuto ospitare papà, loro cognato, ma non se ne vedeva il bisogno, dopo le assicurazioni dei partigiani. Perché andare via? Non era proprio il caso. Questi i pensieri nostri. Ma una sera, il 9 maggio 1945, passata da poco la mezzanotte, sentiamo bussare alla porta. Erano tre uomini, con l'elmetto della P.M. in testa (Police Military): hanno imposto al papà di seguirli per un interrogatorio che doveva tenersi a Reggio. Noi eravamo stupiti, per l'ora e perché sicuri delle precedenti assicurazioni di incolumità. Ho accompagnato mio padre fin sulla porta, l'ho abbracciato e l'ho visto allontanarsi e salire in una balilla nera. Sul ponte, a trenta metri da casa mia, un uomo a me noto di Massenzatico, appoggiato alla bicicletta, aspettava: non so cosa; forse di vedere se la spiata era andata come voleva. Non voglio fare accuse. Voglio solo dire che l'ho riconosciuto.
    Mia madre ha cercato il papà per anni. Ogni volta che scoprivano una fossa, che scavavano, lei, con la sua bicicletta, andava a vedere: cercava suo marito. Mai niente.
    Qualcuno ha detto che mio padre è stato ucciso perché nel suo lavoro aiutava preferibilmente persone del suo credo politico, a scapito dei "rossi". Io non ci credo; ma se qualcuno sa, con certezza, che non è stato sempre corretto, per favore me lo dica; in ogni caso, non mi pare che sia stata una buona ragione per ucciderlo, e poi fare sparire il cadavere! Pensi se dovessero uccidere, oggi, tutti quelli che raccomandano qualcuno!
    Se coloro che nel 1945, a Massenzatico e dintorni, hanno fatto sparire tanta gente, in un atto di pentimento, decidessero di parlare e, anche in forma anonima, di dire dove hanno messo i nostri cari, forse morirebbero più tranquilli. 
    Io spero che sia così; i nomi si sanno. Qualcuno è già andato all'altro mondo; ma qualcuno c'è ancora, e magari gira su lussuose automobili ed abita in faraoniche case! La coscienza, signori, la coscienza! Se hanno agito convinti di fare il bene del popolo, perché nascondono così mandanti, esecutori, tutto? Perché? Mio padre non è stato un assassino: mio padre deve riposare in terra benedetta; loro, gli assassini di mio padre, riposeranno al Camposanto. E' giusto questo?».

Rag. Amedeo Agosti, classe 1933
 
 
    «Mio padre, Ovidio Agosti, è nato a Bagnolo in Piano nel 1897. Si è trasferito poi a Rio Saliceto, dove, in piazza, ha aperto un negozio di generi alimentari: figlio d'arte, potrei dire, in quanto già dal 1817 gli Agosti esercitavano questo mestiere, iniziato a S. Maria di Novellara. Tutti i suoi fratelli, ed erano sei, gestivano un negozio: una passione, ed una tradizione di famiglia ben consolidata. Rispettoso della Chiesa, senza essere bigotto, poteva essere considerato "liberal-democratico" se si vuole definire la sua posizione politica. Di sicuro, riguardoso verso le istituzioni e l'ordine precostituito. Pur non essendo ricco, il papà godeva di un largo credito, soprattutto morale. Si stava bene, nella nostra famiglia, dove l'affetto reciproco regnava incontrastato. Era il 1936: noi abitavamo di fronte alla casa del fascio, ed un pomeriggio si sono presentati due militi, che lo hanno invitato a seguirli, a pochi metri da casa, appunto; lì, gli hanno comunicato che se non prendeva la tessera del partito, non gli avrebbero rinnovato la licenza dell'esercizio. Mio padre, con famiglia a carico, ha accettato questa condizione. Non ha mai avuto cariche politiche, né responsabilità di partito: ha fatto sempre, e soltanto, il bottegaio.
    Durante l'inverno 1944-45 siamo stati disturbati, quasi ogni sera, da gruppetti di partigiani che, al calar delle tenebre, si facevano aprire il negozio e razziavano bottiglie di Vermuth, di Marsala, di Sassolino... tutto ciò che di alcolico era in negozio. E non solo; siccome eravamo proprietari di un piccolo podere, che tenevamo a mezzadria, siamo stati tassati per L. 100.000! Una enormità, per quei tempi, tanto che per racimolare tale somma da versare ai partigiani, mio fratello ha venduto le mucche. Ricordo che il maestro Francesco Panisi era stato tassato di L. 50.000: un dramma anche in quella famiglia, non unica.
    Quell'inverno è stato veramente difficile, e abbiamo conosciuto la fame; abitando in piazza, si era un poco in vista: di giorno tedeschi e fascisti, di notte partigiani... Si viveva nel terrore.
    La mattina del 22 aprile 1945, ricordo di aver contato, dalla finestra, 830 carri armati americani provenienti da Carpi e diretti a Guastalla: la strada era sventrata dai cingoli. E poi il 25 aprile: la piazza, da mesi buia, si era illuminata di nuovo; intorno a noi aria di festa, gente nelle strade e, finalmente, luce nelle strade! Ma il sabato sera, 28 aprile 1945, le lampadine della piazza non si sono accese: triste presagio. Verso le 22, quattro partigiani hanno picchiato alla porta: tre a viso scoperto, uno mascherato. Ma indossava, questo ultimo, un maglione a righe larghe bianche e nere, un poco particolare, che la mamma e mia sorella hanno sùbito riconosciuto: apparteneva, infatti, a (* *).
    I quattro uomini hanno insistito perché mio padre li accompagnasse al comando partigiano: stizziti dallo stupore dei familiari, che non capivano il perché di tanta fretta, data l'ora, e spaventati dal fatto che nello stesso pomeriggio era stato prelevato da casa, proprio vicino a noi, il dott. Ercole Fiandri, Capitano medico del Comando Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana ed il veterinario di Rio Saliceto, dott. Bruno Lodesani. In modo rozzo, poi, il papà è stato strattonato e spinto dentro una "Balilla" rosso scuro, scomparendo ai nostri occhi terrorizzati. Non l'avremmo rivisto mai più. Ed ancor oggi lo vado cercando, e non so darmi pace, perché era un uomo buono, profondamente disponibile e generoso. Con tutti. Ricordo il suo libro dei crediti: era scritto fittamente... ma mai, dico mai, e ne sono testimoni ancora tanti paesani, ha sollecitato quel che gli veniva... sapeva la povertà della gente, la fame, il bisogno, ed attendeva, fiducioso, tempi migliori. Una brava persona, fuori dalla politica attiva, che pensava solo al lavoro ed alla famiglia.
    Un uomo che mai si era compromesso col regime. Perché allora quella fine terribile?
    A Ca' dei Frati, c'è ancora una chiesetta dedicata a S. Antonio; custode, a quei tempi, era un certo Orlandini, poverissimo, con tanti figli; di tanto in tanto, veniva dal papà a chiedere un poco di farina, per sfamare la numerosa famiglia, mai è andato a casa a mani vuote. Il 28 aprile, egli si trovava per caso all'osteria "Al Butghin", quando ha sentito alcuni partigiani del luogo (poi identificati) dire: "...E po’, stasira, andom a catar al butgar e al dutor...". Accortisi che l'Orlandini ascoltava, lo hanno minacciato di tacere, pena la morte sua e dei suoi figli. Diversi mesi dopo, mosso da sensi di colpa, questo povero uomo è venuto dalla mamma e le ha raccontato ogni cosa. Abbiamo cominciato, così, un'azione giudiziaria alla Procura di Reggio. Ma, improvvisamente, Orlandini è stato accusato di atti di violenza e ricoverato in manicomio; il tutto così in fretta da lasciare allibiti...
    Questo ricovero coatto ha reso, naturalmente, non più valida la sua preziosa testimonianza. I nomi degli assassini, però, erano stati fatti, ed una specie di processo ha avuto luogo: a testimoniare alcune mogli di imputati, venute a Reggio in bicicletta per compiere il loro "dovere". Mi hanno poi raccontato alcune persone di Rio Saliceto, che le suddette signore avrebbero esclamato a conoscenti, che domandavano loro come era andata: "...Le andada bein, mo ghe vru una sporta ed sold!".
    Col tempo ho saputo ogni cosa: so chi è venuto a prendere mio padre, e so anche chi è stato il macellaio. In 50 anni mai nessuno ha potuto dire che mio padre si sia compromesso col regime: ha lavorato, mantenuto quattro figli ed aiutato tutti coloro che si rivolgevano a lui per un aiuto.
    Io lo ricordo con amore e rimpianto. Mi manca ancora, e sono anziano. Non ho dimenticato, anche se cerco, con fatica, di perdonare. Però, per la verità storica, questi orrendi delitti devono essere scritti. E fatti conoscere. Per amore di verità, appunto

M.tra Giuliana Gubert, classe 1931
 
 
    «La mia è una storia sofferta, ricca di ricordi dolorosi che avrei voluto cancellare dalla mente, ma non è stato possibile. Forse, raccontare le mie vicissitudini può essere utile a chi, ancora oggi, insiste a dire che la Resistenza è stata un'epopea meravigliosa. Sono cresciuta con i nonni materni in via Achille Peri, a Porta Castello; il nonno era paralizzato e la nonna non godeva di buona salute. Lo zio Pasquale Varone era Maggiore dell'esercito, Tenente osservatore pilota e Direttore lancio-paracadutisti; un militare in carriera, insomma, che era andato volontario sull'oasi di Giarabub a lanciare viveri e munizioni ai resistenti. Il nonno Antonio era stato Maresciallo nell'esercito, volontario in Africa e, lo posso assicurare, uomo tutto d'un pezzo, amante della Patria per la quale avrebbe dato la vita. Così, con un grande senso dell'onore, era cresciuta la famiglia, e così il nonno aveva educato anche me. Senso dell'ordine, dell'amore per la Patria, del rispetto per tutti.
    Il 25 aprile sono scesa in strada per vedere la sfilata dei partigiani che scendevano dalla montagna: viale Umberto era pieno di gente che gridava ed applaudiva; io capivo che una stagione era finita e pensavo che stava crollando tutto quello in cui avevo creduto. Avevo 14 anni, e la sfera dell'emotività - dati i tempi - assai sviluppata; mi veniva da piangere. Allora il signor (* *), che aveva un negozio vicino  a casa mia, vedendomi emozionata, mi ha gridato in dialetto: "...Piangi, piangi, figlia di fascisti", aggiungendo parole offensive, e mi ha schiaffeggiata. Dai primi di maggio, tutti i giorni alcuni partigiani, tra cui ricordo un certo (* *), piombavano dal nonno, piazzavano la mitragliatrice in cortile e venivano a cercare quel "gran fascistone" di mio zio Pasquale, che, (ma noi non lo sapevamo) era stato mandato da Torino, dove era ufficiale, nel campo di concentramento di Coltano, in Toscana. Avendo trovato le sue divise, le hanno strappate, e con loro le decorazioni, orgoglio dei nonni, e ce le buttavano giù dalle scale. Non solo: per giorni, ogni volta che salivano in casa, mangiavano tutto quello che avevamo, ed una sera ci hanno preso quel poco di oro che la nonna custodiva in un cassetto del comò, doni di nozze. Mio zio era benvoluto e stimato da tutti; mi hanno raccontato, a guerra finita, che quando era ufficiale alla caserma "Zucchi", non mangiava alla mensa ufficiali, ma insieme ai suoi soldati. Severo, come poteva essere un cadetto uscito dall'Accademia di Modena, onesto e fedele al giuramento, mio zio non avrebbe mai tradito. Però so anche che mai ha fatto del male: era un militare dell'esercito, e basta. Quelle "visite" reiterate hanno sconvolto il nonno, che piangeva, essendo paralizzato e non potendo fare niente; e niente si poteva fare, solo aspettare che se ne andassero e non ci uccidessero; dopo pochi mesi al nonno, Antonio Varone, è scoppiato il cuore.
    Mio padre, Giulio Gubert, classe 1901, durante la guerra era vice-direttore della centrale elettrica di Vigheffio di Parma; abitava in quel paesino con la mamma e mia sorella più piccola di me e stavamo bene. Alla centrale (che allora si chiamava Cabina Edison-Volta) egli si occupava di tutto: dalle paghe delle maestranze, alla gestione dell'azienda... un pezzo grosso, diremmo oggi. So che non era vestito con divisa, era in borghese, e neanche troppo ricercato. Il suo carattere semplice, genuino, bonario, l'aveva fatto amare da operai e impiegati, oltre che rispettare dalla dirigenza. L'8 settembre 1943, i tedeschi, piombati in Centrale, volevano da lui un elenco di operai comunisti da mandare prigionieri in Germania: mio padre ha risposto loro che non era in grado di stilare alcun elenco; sapeva solo che erano tutti bravi, onesti e lavoratori. Così sono trascorsi i mesi di guerra, e, passata la Liberazione, ai primi di maggio si sono presentati a casa due Carabinieri che lo hanno invitato in caserma per accertamenti; un vicino di casa, infatti, certo (* *), partigiano dell'ultima ora, lo aveva denunciato con l'accusa di essere "bastonatore del popolo"! Per questo, mio padre è stato poi trasferito nel carcere di S. Francesco, in Parma, ed ivi trattenuto per un mese. La cella in cui viveva era 9 metri quadrati e vi "risiedevano" in 12! E' stato un mese di torture, fisiche e morali. Ma poi il miracolo è avvenuto: un gruppo di una ventina di operai, i "rossi" del "Capannoni" (zona calda di oltretorrente) che erano stati alle sue dipendenze e da lui salvati dalla prigionia, hanno fatto chiasso davanti e dentro il carcere, tanto che hanno decretato la liberazione del papà; credo che a pochi uomini sia toccata una simile sorte. E questo gesto mi ha fatto ricredere anche su certe figure... che avevamo soltanto temuto; spesso con ragione. Certo, bastava una segnalazione buttata lì, senza prove... ed un uomo poteva essere ucciso, e torturato. Questo è un aspetto della "giustizia" partigiana che ancora oggi mi sgomenta; troppo spesso hanno chiamato giustizia vendette personali, odî, antipatie...
    Ma c'è un'altra storia, vera, che ha segnato, seppure marginalmente la mia vita. Mio suocero si chiamava Prospero Silingardi e di mestiere faceva il daziere. Originario di Luzzara, si era sposato e, a metà degli anni ‘30 era venuto ad abitare a Reggio, in via L. Ariosto, 18. Aveva due figli, bravi e belli: Luciano e Laura. Una famiglia modello, che ancora oggi tanti ricordano; ma, soprattutto, mai avuto a che fare con la politica attiva e col partito, anche se, è giusto ammetterlo, credeva nel fascismo e nel 1943 si era iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana. Nella primavera 1945, a causa di un bombardamento, uno spezzone gli aveva ferito la gamba destra, per cui si era resa necessaria l'ingessatura. E così, ingessato, l'aveva colto il 25 aprile. Nulla però era successo in quel giorno, ma, dai primi di maggio, la famiglia subiva quotidianamente "visite" di partigiani che, oltre a mangiare, razziare e portare via quanto di asportabile era in casa, minacciavano tutta la famiglia di torture, di morte, rendendoli quasi pazzi di terrore. L'immobilità di Prospero aveva paralizzato anche la moglie ed i figli, che se ne stavano in casa, spaventati, temendo di sentire per le scale i passi e le risate sgangherate degli aguzzini. Un pomeriggio, per crudeltà, hanno preso mio suocero, in quattro, e l'hanno "scosso" fuori dalla finestra, tra il terrore dei figli e gli "evviva" delle donne della strada che, come furie scatenate, gridavano. "...Butél sò... cul cancher d'un fasesta!" (Buttatelo giù, quel canchero d'un fascista). Il giorno dopo è stato commesso un reato ancora più grave: Laura, una splendida ragazzina quindicenne, è stata violentata da tutti e quattro i partigiani... i quali hanno avuto il "riguardo" di mandare prima i due poveri, disperati genitori in cucina, e di chiuderli dentro. La povera madre sentiva i lamenti ed il pianto della sua creatura stuprata dai giustizieri...
    Il 6 maggio 1945, poi, di sera, i soliti bravi sono venuti a prelevare Prospero Silingardi. Capito tutto, raccomandava al figlio giovinetto di curare la madre e la sorella... perché non sarebbe più tornato...
    Caricato su una Topolino stipata di uomini, è sparito. Per tre anni la famiglia l'ha cercato; quasi ogni giorno mia suocera andava presso i comandi partigiani a pregare, piangere, supplicare... Ma nessuno sapeva niente. Solo nel 1948 una persona, impietosita, ha consigliato di recarsi a Coviolo, in un certo posto e di scavare; con l'intervento della forza pubblica ciò è stato fatto, e agli occhi dei figli sono apparsi una decina di resti, di poveri resti... tra cui anche quello del padre, riconosciuto dalla dentatura, rimasta intatta, e dalle briciole del gesso intorno alla gamba destra.
    La famiglia è rimasta in miseria, materiale ed affettiva; ha continuato ad abitare la stessa casa, di via L. Ariosto, nonostante tutto. E questo "nonostante tutto" vuole dire molte cose: per esempio, che si è poi saputo il nome della delatrice, della spia che si è preoccupata di recarsi al comando partigiano a segnalare che Prospero Silingardi era un fascista, e come tale doveva essere barbaramente ucciso. La signorina di allora, oggi pasciuta e ricca signora, passeggia per le vie del centro tranquilla, serena, orgogliosa forse, di essere una assassina.

M.tro Vado Rabotti
 
 
    «Sono un maestro elementare in pensione; nel 1943 ero militare a Bellagio di Como, in qualità di Sergente di fanteria presso il 67° Reggimento. L'8 settembre, con lo sbandamento dell'esercito, sono scappato a casa, dove sono arrivato il 14 insieme ai miei quattro fratelli, tutti militari. L'11 novembre di quell'anno ho cominciato ad insegnare a Groppo di Vetto; andavo a scuola a piedi, perché ero ricercato, e utilizzare la corriera poteva essere pericoloso. Ero infatti considerato disertore; mi è andata bene, ed ho potuto insegnare, abbastanza tranquillo, fino al giugno successivo. Dopo la fine della scuola dormivo nei campi, per paura dell'arresto. Nel luglio 1944 sono stato arruolato nella Guardia Nazionale Repubblicana, insieme ad una decina di altri giovani di Leguigno. Ci hanno portati a Reggio, in via Gazzata, credo alla caserma "Muti"; lì siamo stati per circa quaranta giorni. Io avevo la qualifica di Sottotenente e spesso mi mettevano di ronda; non sono stati giorni tranquilli, per la continua paura di essere assaliti o uccisi. Finalmente, un Maresciallo di Viano ha organizzato una fuga: molti sono scappati; io avevo un permesso di due giorni, ma, una volta arrivato a casa, non sono più tornato a Reggio. Ma anche Leguigno era pericoloso: mi cercavano, ed allora, anche per non mettere nei guai la mia famiglia, mi sono visto costretto ad arruolarmi nei partigiani. Era la fine di agosto 1944.
    Non c'era alternativa, per me. Ero nella 26° Brigata «Garibaldi», in località "Fagiola", presso Villaminozzo. Là comandava un ufficiale inglese, coordinatore dei vari distaccamenti della provincia. Il suo ufficio, allestito in una baita, era dotato di apparecchio radio ricetrasmittente, col quale comunicava con il comando della V° Armata americana. Da lui abbiamo ricevuto in dotazione armi automatiche e munizioni che servivano per andare, poi, in zone di operazioni. Comandante del distaccamento era Dino Meglioli, Giuda; pochi giorni dopo siamo partiti verso il monte delle Tane, dal quale si potevano osservare i movimenti delle truppe tedesche. Nostro compito era quello di impedire ogni movimento dei nemici verso la montagna. Alle ore 7 di mattina dell'8 settembre 1944 siamo stati accerchiati dai tedeschi appartenenti ai reparti delle «S.S.» di stanza a Pantano di Carpineti. Giuda ha imbracciato il suo "Parabellum", ma non ha fatto in tempo a sparare: una raffica l'ha colpito alle gambe; insieme a Domenico Casali è stato catturato e portato a Pantano, dove, il 15 settembre, sono stati uccisi. Io sono riuscito a scappare nel bosco, dove mi sono nascosto in un fitto cespuglio di vitalba, da dove potevo seguire i tedeschi impegnati nel rastrellamento dei miei compagni. Ma ero ferito, sanguinavo: ormai sfinito, ho raggiunto carponi Ammana; lì, una anziana signora mi ha accolto ed ha mandato a chiamare il dottor Gabbi, che, rischiando la vita, è accorso quasi subito. Sono poi stato curato anche dal dottor Pistelli; e così, dopo poche settimane, è finita la mia vita di partigiano. Nell'ottobre ho avuto l'incarico annuo di insegnare a Legoreccio di Vetto; lì incontravo spesso Riccardo Ferrari, veterinario. Era disperato per la morte del padre (1), Maresciallo della Forestale di Castelnovo Monti. Credo che quella morte sia stata non un'azione di guerra, bensì un fatto di odio personale. Vede, la Resistenza è stata un fatto grandioso, ma nella sua luce hanno orbitato uomini non buoni, assassini, addirittura. Questo va detto, a onor del vero. E la denuncia di questi, che hanno infangato un movimento così fulgido, sarebbe ora di farla. Questa azione ripulirebbe la Resistenza dalle scorie e dalle ombre. 
    Il 17 novembre, poi, nella scuola in cui insegnavo, proprio nella mia aula, si è consumato il famoso eccidio del distaccamento "Cervi". Ecco come si sono svolti i fatti. Grazie ad una spiata effettuata da una donna, (* *), alla quale, non va dimenticato, nel giugno di quell'anno  i partigiani avevano ucciso un fratello medico, e ad un milite del luogo, (* *), oltre ad un ex garibaldino, (* *), un forte contingente  di uomini partito da Ciano, arriva a Legoreccio. Diversamente da come ha raccontato Franzini, il fatto si è svolto così: una pattuglia del distaccamento, composta da tre uomini, era di guardia a Casalecchio; fuori era freddo, ed uno dei ragazzi, per riscaldarsi un po’, ha invitato gli altri in casa sua per bere un bicchiere. La cucina era a pianterreno; i tre hanno appoggiato i fucili al muro e si stavano scaldando; dalla porta socchiusa sono entrati, armati, i tedeschi. Presi dal terrore, i tre partigiani hanno detto ai nemici la parola d'ordine, in cambio della vita. Hanno poi accompagnato i tedeschi verso la scuola di Legoreccio. Alla parola d'ordine, la guardia ha aperto il portone... e dopo è successo il finimondo! Il distaccamento intero fu distrutto. Nel giorno dell'Assunta, credo nel maggio 1945 io ero a Vedriano a ballare: mi si sono avvicinati due uomini e mi hanno chiesto se andavo con loro ad ammazzare (* *). Io ho risposto: "...La guerra è finita; io continuo a ballare!"
    (* *), poi, è stato preso ed accompagnato in tutte le case di Legoreccio per essere riconosciuto; cosa che si è regolarmente verificata. Tutti lo avevano visto, quella notte. L'ultima fu una ragazza. Alla domanda se avesse visto quell'uomo, ha risposto, sicura: "...Sì, è venuto a casa mia per chiedermi una corda da legare il comandante del distaccamento "Cervi" (Arturo Gambuzzi) al biroccio..."  (2). E così l'hanno portato al cimitero ed hanno cominciato a scavare una fossa; (* *) era seduto a terra, e guardava tranquillo. Ad un certo punto si è alzato, è entrato nella buca, si è disteso, ed ha detto: "...Potete fermarvi qui... è già abbastanza profonda...". Il suo ultimo desiderio è stato quello di avvisare la madre del luogo della sua sepoltura. E' morto con dignità: così mi hanno raccontato coloro che erano sul posto e che l'hanno sepolto.
    La guerra civile è stata una tragedia, mi creda. Ed ha lasciato strascichi di odio, di risentimenti, di voglia di vendetta. Troppi soprusi sono stati compiuti, da entrambe le parti. Io lo posso dire, perché sono stato arruolato prima nella G.N.R. poi sono stato nei partigiani. E' così, purtroppo. Razzìe?
    A volte... non nel mio distaccamento, però. In quel mese io non ho mai visto compiere razzìe o ruberie: so, comunque, che qualcuno ha rubato, in nome della fame, del bisogno, e, cosa grave, della Resistenza...
    Nel castello di Leguigno c'era un reparto tedesco: i militi, a volte, venivano al casello a prendere latte e burro. 
    Una volta sono venuti da mio padre: chiedevano "Uva... uva...!" Mio padre li ha accompagnati nei campi, per fargli vedere che non era tempo di vendemmia... volevano, invece, uova! Devo ammettere che non hanno mai disturbato, in paese, mai fatto razzìe, mai portato via niente. 
    In quel periodo non è stato toccato un abitante; erano militari abituati alla severità, all'ordine. Certo, li temevamo; ma bastava lasciarli stare. E dalla primavera 1944, invece, sono stati, continuamente, provocati. Così era la lotta clandestina... Era una guerra di disturbo... questa era, per necessità, la sua filosofia... E così è cominciato, per noi tranquilla gente di montagna, il calvario delle paure, dei rastrellamenti, dei lutti...
    Questo è stato il prezzo della libertà.»
 
(1) Ostilio Ferrari.
(2)  Arturo Gambuzzi, Cervi, fu catturato ed ucciso poi a Vercallo il 21 dicembre 1944. 

Rag. Franco Formentini, classe 1930
 
 
    «Sono nato a Pieve Rossa di Bagnolo il 4/9/1930. Mia madre, Maria Menozzi, era maestra e mio padre, Guido, aveva una attività commerciale; anzi, più di una, perché, insieme ai suoi fratelli, gestiva un negozio a S. Tommaso. Nel 1934 la mia famiglia si è trasferita a Massenzatico, dove mio padre cominciava a gestire un mulino con annessa attività commerciale. Vivevamo una vita tranquilla, caratteristica dei tempi. La mamma provvedeva a far crescere i figli ed il babbo lavorava; serio, preciso, onesto, pensava solo al suo mulino ed alla sua famiglia, che amava e rispettava. Come tutti, per poter esercitare, aveva la tessera del fascio, ma non faceva attività politica. Ricordo di averlo visto poche volte in divisa, e solo in occasioni di ricorrenze e feste; quotidianamente vestiva abiti civili, sempre imbiancati dalla farina...
    Nel 1941, a causa di difficoltà economiche, gli fu ritirata la licenza; per pochi mesi, a dire il vero, ma sufficienti per metterci in ginocchio. Ricordo che il papà, allora, andò a fare il carrettiere, e noi bambini aspettavamo con ansia il suo ritorno, la sera, per poter usare la farina gialla che portava a casa e mangiare un poco di polenta. Ma nonostante le difficoltà la mia era una famiglia serena, e mai ci è mancato affetto e solidarietà. Devo dire che eravamo rispettati e benvoluti, a Massenzatico, e nessuno ci ha mai fatto dispetti o cattiverie. Le cose si sono poi rimesse a posto, e, col lavoro di quattordici ore al giorno, si stava benino. La mamma, natura generosa, scambiava sacchetti di grano con farina bianca alle donne, più bisognose di noi, che bussavano alla nostra porta: e questo senza discriminazioni politiche.
    Mai abbiamo avuto noie, ripeto, fino alla fine della guerra; neanche nel periodo che seguì il 25 luglio. Si andava d'accordo con tutti, e si cercava di fare il proprio dovere. Questa era l'aria che si respirava in casa mia, e per questo la tragedia poi accaduta mi ferisce ancora e mi provoca uno struggente dolore.
    La notte tra il 9 e 10 maggio 1945, verso l'una e venti, abbiamo sentito bussare alla porta: una Jeep si era fermata davanti al mulino e ne erano scesi tre uomini, i quali, a volto scoperto e con fare abbastanza gentile, hanno chiesto a mio padre di seguirli per accertamenti. L'ora tarda e la sorpresa non avevano sconvolto più di tanto il papà, che, sicuro della sua onestà politica e personale, si era vestito e si accingeva a seguirli tranquillamente. La mamma, lei sì, piangendo lo pregava di non andare, di aspettare la mattina seguente. Ricordo che mio padre la rincuorava dicendole: "...Di me e delle mie azioni rispondo dovunque e ad ogni ora... non ho fatto niente di male... perché dovrebbero farne a me...?"
    Un bacio alla moglie, uno ai figli - spaventati - e... non lo abbiamo più rivisto. Aveva 47 anni, nostro padre. Nella casa ormai priva delle sue braccia e del suo cuore restavano una vedova e tre bambini.
    Pochi giorni dopo la sua sparizione, io, allora quindicenne, ero andato dal Toscanino, un capo partigiano molto conosciuto a Massenzatico, per domandargli qualcosa... non ne sapeva niente, disse. Da allora è cominciata la mia Via Crucis: perché hanno ucciso mio padre? Cosa poteva avere fatto? Era un bell'uomo, si presentava bene... poteva incutere soggezione per il suo modo sbrigativo, serio... Ma altro... che motivasse una morte? A noi ragazzi non ha mai dato uno schiaffo.
    Ho pensato, più di una volta, ad un delitto non politico, ma personale... frutto di invidia... Ma che invidia? Noi non avevamo né automobile né motocicletta, simboli ancor più allora di benessere... La politica deve essere stata un pretesto. Questo è ciò che penso. In quel maggio, vendette, odî, ripicche, hanno avvelenato un'atmosfera di festa. Sono cose note; d'altronde, a Massenzatico, abbiamo avuto sette "dispersi"; scomparsi senza apparente ragione e che aspettano sepoltura cristiana. Ecco, io chiedo che chi sa racconti, perché quei poveri morti non devono restare nell'anonimato, uccisi ancora dalla dimenticanza. E qualcuno che sa, che ha visto, che ha ucciso c'è ancora, ne sono sicuro.
    Perché continua questo ostinato silenzio? Sono passati cinquanta anni ed ancora i resti dei nostri morti non si possono ritrovare. E quanti ce ne sono! Penso ai ventisette di Campagnola, completamente rimossi dalla memoria storica reggiana; sì, dimenticati. I libri usciti in questi ultimi tempi, infatti, a partire da quello di Zambonelli (1) a quello di Baraldi (2) non li citano nemmeno. Perché questo muro di omertà? Per ritrovare un comportamento del genere bisogna rifarsi ai famigerati "Squadroni della morte" di Pinochet o alla Ghepeù stalinista, come sostiene Flavio Parmiggiani (3).
    Qualcuno ha lanciato dei sassi, ma poi ha tirato indietro la mano.
    Nel 1947, - ecco qui la lettera in originale - un anonimo ha spedito a mia madre, che ce l'ha tenuto nascosto per anni, questo manoscritto; in esso, l'informatore, semi-analfabeta, racconta quanto segue: (traduco per comodità):
    "Sono un partigiano. Mi dispiace ma non posso tacere. Gli assassini di vostro marito e (dei mariti) di tutte le altre, comprese le casare, del vecchio fiduciario e di tutti sono i seguenti: (seguono 11 nomi). Io ho veduto tutto e vi ho detto tutto. Unitevi e fate fare una retata subito che non vi sbagliate... Quanti ne hanno ammazzato! E (* *) ha tutte le cinghie dei pantaloni (degli uccisi)..."
    Più tardi, una persona degna di fede mi ha confidato che in un podere di Massenzatico, di proprietà (allora, nel 1945) di (* *), si trovava un pozzo nero, pieno, sì, ma non di liquami... e che lo stesso (* *), nella cui casa si facevano certi "processi", eseguite le esecuzioni, teneva per sé le cinghie dei pantaloni degli uccisi... cinghie poi passate ad un suo nipote, (* *)...
    Le segnalazioni sono continuate per anni, finché, tre anni fa, mi sono deciso e mi sono recato dal Magistrato di competenza, il quale, in data 19 settembre 1996 ha mandato i Carabinieri ed i Vigili del Fuoco per fare indagini nel succitato podere. Il pozzo era cementato. Ora è mio intendimento proseguire, perché ormai troppi, da troppe parti, mi mandano segnali concordanti...
    Io vivo nel dolore, nell'angoscia di sapere dov'è mio padre. Vorrei solo sapere dove l'hanno messo, per poterlo seppellire in terra consacrata. Niente di più. Niente vendette. Niente risentimenti. Niente di niente: solo poter andare a pregare sulla sua tomba. Chiedo troppo?»
 
(1) ANTONIO ZAMBONELLI, Antifascismo e Resistenza in un paese della «bassa»:  Campagnola Emilia (1919-1945). ANPI.
(2) BARALDI EGIDIO, Nulla da rivendicare, Tecnostampa, 1989.
(3) PARMIGGIANI FLAVIO, Lettera aperta al Comitato per le celebrazioni del 25 aprile 1990 di Campagnola. Lettera che non è stata poi pubblicata dal periodico «Il Borgo» a cui era stata indirizzata.

Celestina Fontana, classe 1914
    
    
     «Sono nata al Cigarello, frazione di Carpineti, nel 1914 e lì ho vissuto fino al 1948, anno in cui mi sono sposata e sono venuta ad abitare nella frazione della "Boastra", in un'antica casa che sembra avere origini matildiche. I miei genitori erano contadini, modesti, ma non poveri: mio padre aveva un fratello prete ed uno medico, morto giovanissimo. Come medico era un fratello di mio marito, il dott. Ostilio Fontana, che per tanti anni ha esercitato presso l'ospedale di Castelnovo Monti. Dunque, la mia famiglia, pur essendo composta di 14 persone, viveva tranquilla: fino al 1943, quando, nel tardo autunno, sono cominciate ad arrivare le notizie dei primi arresti, e dei primi movimenti partigiani sulle nostre montagne. Vicino alla nostra casa era situato il vecchio casello; nell'estate 1944 alcuni tedeschi vi avevano posto la loro residenza, creando nella gente una certa paura. Ricordo che una mattina, era un sabato, un tedesco si stava facendo la barba davanti alla porta, in cortile: d'improvviso una fucilata l'ha falciato. Nel bosco retrostante, infatti, erano appostati i partigiani. Il giorno dopo è arrivata al Cigarello una pattuglia tedesca di rinforzo, con lo scopo di fare un rastrellamento e di bruciare le case circostanti. Un Sergente è venuto a casa nostra, per prelevare le donne che dovevano ammannire il morto; eravamo terrorizzate. Con le braccia in alto, ci siamo dirette verso il casello: un occhio ai tedeschi, che avevano le armi spianate, e un occhio al monte Mondovilla, sede dei partigiani...
    Tutti ci minacciavano, e noi non sapevamo cosa fare. Poi, per fortuna, è arrivato don Giuseppe Sala, che ha spiegato ai tedeschi che noi eravamo brava gente e che non avevamo alcuna colpa; così ci hanno risparmiato, e anche le nostre case. Ci hanno preso quattro vacche, delle sei che erano nella stalla. Pochi giorni dopo abbiamo ricevuto visite anche dagli altri... Il gruppo partigiano era comandato da (* *), ma in casa nostra si è presentato un vicino di casa: (* *), di Marola. Costui, armato di fucile, ha ordinato che venisse prelevato tutto il frumento che era in sacchi, tutta la roba di maiale, le uova... pensi che noi si faceva il sapone in casa: beh, hanno preso anche quello.
    Poi sono andati nella mia camera e mi hanno rubato la dote, e dei pezzi di stoffa che mi servivano per il lavoro: infatti facevo anche la sarta. Mio padre Artemio, già molto anziano, piangeva e si era inginocchiato davanti a lui, supplicandolo di pensare ai bambini, alle ragazze... lo pregava di lasciarci 
    qualcosa da mangiare... allora lui ha detto: "...Noi stiamo salvando l'Italia, e quando ripasserò mi darete il vostro vino migliore!" Altro che vino migliore... non è più ripassato, e ha fatto bene! Ritirandosi, poi, sono passati per i campi, dove la mamma aveva nascosto, in sacchi, della tela per lenzuola: hanno portato via anche quella! Guardi, quella razzìa ci ha veramente distrutti; io non ho più risentimenti, ma la mia dote, perfino l'ombrello... a chi poteva servire? Non credo che tra i boschi apparecchiassero con le tovaglie ricamate... Mah, c'è gente che si è arricchita, altro che...
    E le visite si sono poi ripetute altre volte; guardi, se dei tedeschi avevamo paura, dei partigiani eravamo terrorizzati; erano più rozzi, più prepotenti. E' vero che i tedeschi ci costringevano ad aiutarli in cucina, pelando le patate e preparando, a volte, da mangiare, ma poi ci davano la carne buonissima, quando l'avevano...
    Se ricordo episodi clamorosi? Eccome! Pensi al povero Maresciallo Ferrari di Castelnovo Monti: mi raccontava mio cognato, il dott. Ostilio Fontana, molto amico di Marconi, che la morte del Ferrari era stata causata dalla spiata di un castelnovese.
    Un altro caso è stata la morte della Tersilla Wender: qualcuno diceva che aveva fatto la spia... non lo so; di certo ricordo che l'avevano rapata, poi l'hanno uccisa. Processo? Ma scherza? Allora non c’era tempo per i processi…
    Altro caso: un certo Brunin, Bruno Balestrazzi, è stato arrestato a Carpineti, dove abitava; l'hanno preso e costretto a salire fino al castello con davanti una "corga", una cesta piena di fieno come si faceva con gli asini; poi, arrivato su... mitragliato. Peggio che con una bestia. Era un buon uomo, faceva solo il gradasso... si dava un po' di arie, ma non credo fosse un assassino. Se potesse parlare la zona intorno al castello di Carpineti... ne salterebbero fuori di cadaveri...
    E il Rossetto? Quello era un ragazzino; ricordo che cantava e suonava con un pettine, e la carta velina delle sigarette... allora non c'era niente, sa? Forse era un simpatizzante, ma non certo un milite con delle colpe sulla coscienza; beh, fatto fuori anche quello, freddamente.
    Anche a Pantano non hanno scherzato; la moglie di Berto Rossi era incinta: ha visto passare il partigiano (* *) con un prigioniero: pochi attimi dopo, uno sparo. Dalla paura ha abortito. 
    Un mio cugino era nei partigiani: un giorno ha rubato la cavalla del pittore Bazzani di Giandeto ed è venuto da noi; mio padre l'ha cacciato via, perché non voleva essere coinvolto con queste razzìe. Noi siamo cattolici ed il povero don Panini ci aveva insegnato che la violenza era un peccato, da qualunque parte fosse esercitata... Soprattutto gli abusi mio padre non li poteva compatire; perché di abusi, troppo spesso, si è trattato. Vede, io non ho nulla contro la Resistenza; l'idea era anche giusta. Ma ci sono stati degli uomini che in nome suo hanno rubato per sé, per le loro famiglie, per arricchirsi loro a danno di altri poveri... questa non è Resistenza. Qui in montagna li abbiamo temuti: ecco, temuti, quanto e più dei tedeschi; e quando, finalmente, sono andati in pianura, il 24-25 aprile 1945, abbiamo tirato un respiro di sollievo, sperando che finissero le razzìe e le enormi paure. Era una guerra civile, era guerra tra vicini di casa, era guerra tra poveri. I nuovi vincitori l'hanno poi messa alla loro maniera, la storia... ma noi ricordiamo, noi c'eravamo, e le posso dire che per farla intera, ce ne manca ancora un bel po' di verità... Ci sono delle pagine bianche da scrivere; non so se basta un titolo di studio per riempirle con onestà: io credo che le possano riempire le parole, le memorie di quelli che c'erano, che hanno patito nella carne viva i tormenti di quei mesi tremendi, quando la vita non valeva più niente. E non solo per opera dei nazifascisti, come le ho detto, ma anche per opera di chi, dietro a un fazzoletto rosso, nascondeva un animo rapace, una tendenza a delinquere che di resistenziale non ha proprio niente.»

Idelbrando Cocconcelli, classe 1923
 
 
     «Nel febbraio 1943 sono stato richiamato alle armi; mi hanno inviato a Verona, presso il IV° Centro Deposito Comando. L'8 settembre sono scappato dalla caserma e sono arrivato a casa, a Massenzatico. Il 22 febbraio '44, a causa del bando di chiamata, mi sono ripresentato; se non lo facevo, ci sarebbero potute essere ritorsioni verso i miei familiari. Sono stato  destinato a Bologna, presso il reparto "Colombofilo". Io sono sempre stato appassionato di colombi viaggiatori, i cosiddetti "belgi", ed il compito a cui era adibita la mia compagnia consisteva appunto nell'allevare ed addestrare questi colombi per portare messaggi al fronte.
    Una notte dell'estate '44 mio padre è stato svegliato da alcuni partigiani del paese i quali gli hanno fatto capire che se restavo a militare avrei avuto dei guai: di più, volevano la mia divisa! Io ero stretto tra due fuochi: da una parte le minacce del citato bando della R.S.I.; se avessi disertato sarei stato passibile di fucilazione, se non avessi disertato avrei subito le conseguenze minacciate dai partigiani. Ho deciso di disertare ed il 18 settembre 1944 sono tornato a casa, nascondendomi in casa di amici, gli Zavaroni.
    Non ho voluto andare con i partigiani perché io sono di una famiglia di cattolici praticanti, e poi non volevo fare uso di armi. Io sono così. Sono stati mesi terribili, fino al 25 aprile 1945; vivevo nel terrore di essere scoperto e temevo anche per i miei ospiti e la mia famiglia. Ma i guai, con la Liberazione, non dovevano finire: in un certo senso sono anche aumentati. In paese, a Massenzatico, si viveva nel terrore, rosso, stavolta. Non tirava buona aria per chi non era comunista, o almeno simpatizzante. Infatti, non erano presi di mira solo gli ex fascisti, minacciati e fatti sparire in modo misterioso, ma anche per i cattolici mancava l'ossigeno. Le minacce erano all'ordine del giorno, ed il più minacciato era il nostro parroco, il bravo Vicario don Adelmo Morsiani. Mi ricordo che lui non riusciva a nascondere la sua angoscia e diceva chiaramente di temere per la propria vita, dopo aver ricevuto delle minacce da anonimi. Eppure il Vicario si era distinto durante il periodo della guerra civile, per aver salvato dai nazifascisti numerosi abitanti di Massenzatico: si ricordano episodi, in questo senso, che si potrebbero definire eroici. Sempre in quei tempi dell'immediato dopoguerra poteva anche essere rischioso, per un cattolico praticante, dare pubblica manifestazione della propria fede. Era rischioso, ad esempio, andare, di sera, alle adunanze dell'Azione Cattolica... Ne sa qualcosa Mario Borghi, di Gavassa, che proprio mentre rientrava da una riunione in canonica, è stato aggredito da alcuni ceffi, bene identificati, che l'hanno tramortito di botte. Facevano parte di quella squadraccia (in un certo senso analoga alle squadre fasciste di triste memoria) giovani comunisti di Massenzatico, Gavassa e frazioni limitrofe. Tra gli altri, il malmenato aveva riconosciuto un certo (* *)... e poi... beh, lasciamo stare perché qualcuno è ancora al mondo! Ricordo bene, invece, l'atmosfera di paura che ancora si respirava quando si andava alla processione con la Madonna Pellegrina; c'era bisogno di tanto coraggio per andarci, e bisognava andare in gruppo. Non era prudente percorrere delle stradine da soli, per non finire come Borghi. Ma anche così, si era oggetto di scherno e di parole minacciose e volgari. C'è voluto del tempo perché il clima si rasserenasse un poco: c'è voluto il 18 aprile 1948, con la batosta elettorale che i comunisti hanno subìto: se avessero vinto loro, non so proprio come sarebbe andata a finire. Anzi, lo immagino: come l'est europeo. I momenti peggiori sono stati i primi mesi dopo l'aprile 1945; anche se hanno perso la vita solo dei fascisti dichiarati, la paura, il terrore si sentiva nell'aria. In ogni modo, anche quei delitti avevano poco a che fare con la giustizia; tutti noi conoscevamo le persone "scomparse"; non c'erano tra loro dei delinquenti; anzi. Credo che fossero odî personali, vendette di parte; erano delitti assurdi che non avevano più senso a guerra finita.
    Quei delitti lì hanno ancora meno senso se considerati a distanza di tempo. Dei veri e propri crimini. Ma il crimine più grande, secondo me, è di continuare dopo 50 anni, a tacere, a far finta di non sapere dove sono le decine di cadaveri massacrati da vanghe e picconi. Non uno, dico uno, che senta il bisogno di confessare?
    Ci sono dei figli che ancora non si danno pace; vorrebbero solo seppellire pochi resti: la morte è uguale per tutti. 
    Questo ostinato silenzio è ancora più criminale.»

Ergisto Moglia, classe 1928
    
    
     «La mia famiglia è originaria di Bibbiano, ma negli anni ‘30 mio padre era ambulante di tessuti e si è comperato una casa a Vezzano sul Crostolo. Di lì si spostava nelle colline circostanti per vendere la sua merce. So che aveva la tessera del Partito Fascista, come tanti, per lavorare. Non eravamo ricchi, ma si viveva forse meglio di altri; avevamo una bella casetta e si stava contenti. Scoppiata la guerra, abbiamo avuto delle difficoltà, anche perché, nel 1944, i tedeschi ci hanno requisito parte della casa e si sono stabiliti da noi. A dire il vero sono sempre stati corretti e gentili, tanto che il comandate del piccolo presidio, ancora oggi, mi manda gli auguri per Natale. Certo avevamo perso la nostra libertà e, cosa ancor più grave, eravamo sospettati dai partigiani di collaborazionismo col nemico; credo che mio padre Albino cercasse solo di sopravvivere.
    In ogni modo, nell'autunno 1944 si sono presentati alla porta dei partigiani: volevano denaro. Gli abbiamo dato tutto quello che c'era in casa; non bastava. La storia è andata avanti per giorni, finché è successo un fatto odioso. Mio padre aveva mandato un suo aiutante in fiume a raccogliere sassi per costruire un muretto; gli aveva dato la cavalla e il biroccio, per il trasporto. Arrivato sul greto, sono sbucati dalla macchia tre uomini, che con le armi puntate gli hanno detto di tornare dal padrone, di dirgli che la cavalla si era azzoppata, e quindi di portarlo lì; mio padre è corso in Crostolo, ma quando ha capito il tranello, era troppo tardi; è stato sequestrato e portato in quel di Pecorile, ed ivi trattenuto per una settimana. Per il suo rilascio, i partigiani volevano del denaro, molto. Mia madre è andata in banca ed ha ipotecato la casa. Quel prelievo fiscale è costato alla mia famiglia anni di lavoro per pagare i debiti. So che è stato salvato da un sacerdote, perché, dopo aver avuto i soldi volevano anche farlo fuori. Pensi che onestà! Sempre nel 1944, ma in novembre, in seguito ad un rastrellamento, sono stato portato alla caserma dell'Artiglieria, ora «Zucchi». Per un favore fatto ad un ufficiale tedesco (i miei gli avevano affittato una stanza in via Emilia, sopra il negozio "Moglia") ho potuto restare a Reggio ed occuparmi, insieme ad un piccolo gruppo di giovani, delle auto sequestrate dai tedeschi.
    Siamo rimasti lì per alcuni mesi. Avevamo una Topolino che serviva per i trasferimenti degli ufficiali lungo tragitti brevi; ricordo che Camellini e compagni, che erano partigiani, a mia insaputa, a volte, di notte, la usavano per azioni loro, e così, la mattina seguente, non c'era più benzina, con stupore dell'ufficiale tedesco che non capiva come sparisse così alla svelta! Una sera sono stato mandato a Bibbiano a prelevare la moglie ed i figli del Colonnello Battaglia, rapito e poi ucciso dai partigiani... Insomma, mi muovevo liberamente e devo dire, con onestà, che quei mesi non sono stati infami; devo dire anche che non ho mai visto compiere azioni di crudeltà, almeno in caserma. L'orrore è cominciato dopo il 25 aprile: morti in tutti gli angoli della città, sparatorie, razzìe, vendette... Non si può descrivere il clima di quei giorni; davanti alla Chiesa della Madonna della Ghiara ho visto uccidere, freddamente, un uomo. Ero molto giovane, e quell'esecuzione sommaria, così brutale, mi aveva traumatizzato. Guardi, il 25 aprile i partigiani sono entrati in caserma, nei magazzini, dove ogni cosa era in ordine; hanno gettato a terra farina, pasta, olio... si sprofondava in trenta centimetri di questi alimenti sprecati... sembravano avvoltoi. Non lo dimenticherò mai; c'era una smania di distruggere, un atteggiamento volgare... non so come dire... disumano, ecco. Era qualcosa che andava oltre la voracità, una sensazione di violenta, assurda razzìa; perché quella roba poteva servire a chi aveva fame. Dopo di questo spettacolo, io mi sono presentato, per consiglio del vice-Prefetto, al comando partigiano. Non avevo commesso alcun reato, avevo 17 anni e mai avevo fatto azioni di guerra. Credevo proprio di potermene tornare a casa, dai miei genitori, ma invece mi hanno mandato in S. Tommaso, in carcere. Dopo un breve interrogatorio, il comandante Zeta, che risiedeva a villa Levi in via Fontanelli, ha creduto bene di mettermi al fresco. Ho salvato la pelle, è vero, ma ho avuto il modo di vedere e di ricordare cosa è stata la giustizia partigiana, i processi, i giudici popolari... Pensi che spesso, a giudicare delle colpe - vere o presunte - di ex fascisti, c'erano i peggiori elementi, la feccia, oso dire, della città. Massacratori, assassini, prezzolati, ladri, il fiore del "popolo giusto", insomma. Con le dovute eccezioni, naturalmente, ma poche, queste eccezioni. Questo è stato il dopo-Liberazione. Qui a Reggio i comunisti hanno scalzato i fascisti, si sono affrettati a prenderne il posto, perfino nella polizia, e, con la memoria ben fresca, hanno ripetuto, a volte con maggior bravura, le loro gesta. Così va il mondo. E pensare che la storia che leggiamo, relativa a quel periodo, ha mitizzato azioni ed uomini che sarebbero da galera.»

Rag. Giuseppe Manfredi, classe 1941
 
 
    «Mio padre, Anno Manfredi, classe 1911, era di famiglia benestante. Nativo di Budrio di Correggio, egli gestiva, fino al 1943, una rivendita-tabaccheria con il fratello Nello nello stesso paese. Uomo sincero e serio, quasi inflessibile, mio padre non era certo un fascista "tutto d'un pezzo", come si suole dire. Spirito indipendente, ricorda la mamma che leggeva L'uomo qualunque, di Giannini, alla luce del sole e mai ha mostrato cedimenti o accondiscendenze che potessero mostrare debolezze alcune di carattere e di temperamento. Dico questo e lo sostengo con un esempio che fa luce sulla sua personalità: una sera del 1943 lo zio Nello era tornato a casa con delle sigarette acquistate al mercato nero: mio padre, accortosene, ha protestato ed ha deciso, immediatamente, di sciogliere la società e di andarsene. Valutate le proprietà, sono state fatte le parti: allo zio sono toccati gli immobili, ed al babbo una liquidazione di L. 400.000. Una discreta somma, per quei tempi, che gli hanno permesso di iniziare una nuova attività: quella di commerciante di turaccioli, prodotto naturale, autarchico, non soggetto al doppio mercato. Si è quindi trasferito in via Fornacelle, con la mamma e me, in un appartamento preso in affitto. Avendo una mano parzialmente compromessa, e quindi inabile al lavoro, era stato riformato alle armi. Per il suo lavoro, girava tutti i mercati della provincia e conosceva, quindi, molta gente.
    Tra i suoi amici più cari annoverava don Pessina, il parroco ucciso dai partigiani comunisti; questa amicizia gli è forse costata, ma non credo che sia stata la causa della sua morte. Mi ha raccontato don Neviani che quando fu recuperata la mandria di cavalli rastrellata dai tedeschi e lasciata sulle rive del Po, don Pessina voleva (come si doveva per legge) riconsegnarla al Comando Alleato, mentre il capo partigiano (* *) era di parere contrario. In quell'occasione, a mio padre era stato chiesto di vendere alcuni cavalli, ma si era rifiutato, in primo luogo perché non frequentava mercati-bestiame, e poi perché non si trovava d'accordo con chi intendeva disobbedire alle leggi vigenti. Così era il suo carattere, e così me lo hanno descritto coloro che, in paese, lo hanno conosciuto e frequentato. Un giorno, tornando dal mercato di Modena, aveva portato a casa due, dico due pacchetti di sigarette americane, da regalare ai partigiani del Toscanino, cugino di mia madre; la sera stessa sono arrivati a casa 5-6 partigiani mascherati e ci hanno perquisito la casa, convinti che nascondessimo quintali di sigarette! E la mamma a sgolarsi per dire che era stato un pensierino per loro, non certo la punta di un ipotetico iceberg di tabacco!
    Questa era l'atmosfera di quei terribili mesi; in ogni modo, la mia famiglia ha passato indenne il 25 aprile; il papà continuava il suo lavoro e mai ha pensato di andarsene. Non aveva alcun motivo, non essendo stato militare, non avendo partecipato attivamente alla vita politica del paese. La sera del 5 gennaio 1946, era uscito per andare alla cooperativa poco distante: voleva comperare dei cioccolatini da mettere nella calzetta; il giorno dopo, la "Befana", voleva vedere la felicità negli occhi del suo bambino. Ma non è più tornato a casa. Testimoni hanno raccontato che ha fatto una partita a carte, poi, verso le 22 ha inforcato la bicicletta per fare ritorno. Un conoscente, certo Leo Fantini, meccanico di biciclette, ha raccontato di averlo incrociato e di essersi stupito perché, contrariamente al solito (mio padre era un uomo calmo, tranquillo) pedalava in modo concitato, quasi volesse scappare da qualche pericolo. Il Fantini, che aveva montato un fanale molto luminoso - Radius - con lo stesso falciava la strada, e, all'altezza della casa di Donnino Menozzi, dopo aver visto il papà sfrecciare a gran velocità, ha notato due figuri, uno alto e sottile ed un altro piccoletto che sembravano rincorrerlo. Pochi giorni dopo la scomparsa di mio padre, il Fantini si è recato in tabaccheria dallo zio Nello, il quale, avendolo sottoposto a stringente interrogatorio, ha avuto da lui piena confessione: ha saputo, cioè, i nomi dei due inseguitori, che sono poi stati i suoi assassini. Gente del luogo.
    La stessa sera del 5 gennaio, in casa di un certo (* *) partigiano, si era tenuta una festa: lo stesso (* *) aveva chiesto in prestito allo zio Nello il giradischi, prontamente dato; durante la festa, intorno alle 9,45, due uomini si sono "assentati" per circa due ore, rientrando intorno alle 23. Questo è stato testimoniato da più persone: e, che strano, si trattava proprio dei due inseguitori di mio padre, entrambi emigrati all’estero.
    Quella scomparsa ha fatto parlare tutto il paese; stupire, perché Manfredi non era un uomo compromesso col regime e nessuno si spiegava un così tardo "regolamento di conti". Di più, Anno aveva aiutato tante persone, era benvoluto... nessuno si spiegava tanta atrocità.
    Mio zio arciprete ha cercato di sapere di più; si è mosso, ha chiesto ed è arrivato molto vicino alla verità: ha intanto appurato il luogo della "sepoltura"; si tratta di un podere al Cantone, in una zona di confine tra Carpi e Correggio, dove probabilmente sono stati portati altri poveri corpi. 
    Nel 1990 (* *) ha ammesso con me che in tutte le famiglie ci sono delle pecore nere, e che la morte di mio padre è stata un macroscopico errore, dovuto a rozza manovalanza. Certo questo non basta a tacitare l'angoscia che ancora oggi è dentro di me. Nel 1946 lo zio Nello è stato minacciato: davanti alla porta del negozio, una mattina, ha trovato fascine, fiammiferi e carta, un esplicito avviso. Terrorizzato, si è trasferito a Varese, dove ancora vive. Non si poteva neanche fare ricerche, in quel periodo. Bisognava solo tacere. Per anni abbiamo, mia madre ed io, sopportato privazioni e miseria; mia madre è rimasta sola a 25 anni con un bimbo di 5 da crescere e far studiare. Non avevamo più nulla: neanche la pensione, perché mio padre risultava scomparso, non morto. E così il danno economico si aggiungeva a quello, ben più grave, della nostra desolata solitudine. Ho patito, e patisco ancora, del mio essere orfano. Mi manca mio padre, e la ferita non si è chiusa dopo 50 anni. E mi ferisce il modo.
    Tante voci, in questi decenni, mi hanno segnalato nomi, fatti, movimenti... So quasi tutto; i nomi degli assassini mi sono noti; quando ho cercato di avvicinarli non mi hanno voluto neanche ricevere. La verità è stata sepolta con mio padre. E con centinaia di altri, alcuni dei quali sicuramente vittime del rancore personale, dell'odio, dell'invidia, del risentimento... Per costoro, non vittime di guerra, si dovrebbe aprire un capitolo a  parte. Io, comunque, non chiedo nulla; solo vorrei che mi fosse restituito ciò che resta di mio padre, perché possa dargli una sepoltura cristiana. Hanno sepolto da uomini anche dei criminali incalliti, degli assassini che hanno commesso genocidi: perché nascondere il cadavere di un civile, di un uomo che vendeva turaccioli e che pensava solo alla sua famiglia? So di misteriose quanto infami connivenze, politiche ed economiche; perché dietro, quasi sempre, c'è molto, molto denaro. Miliardi. Miliardi che tappano bocche, che sanano lacerazioni, che compensano silenzi...
    Se questa è la giustizia... nata dalla Resistenza,... mi scusi, ma che squallore! Io spero, spero che qualcuno che sa, prima di lasciare questa terra, abbia un momento di coscienza e si decida a raccontare, magari in modo anonimo, dove sono i corpi di quegli uomini, e sono tanti, che nessuno può piangere, ma che la memoria collettiva non ha dimenticato. Questo incontro, e la speranza che ci sia ancora chi non è venduto al potere, ne sono una prova.»

Marisa Bigi, classe 1937
 
 
    «Carmen Miari, classe 1921, era sorella di mia madre. Sposata giovanissima con Massimo Beltrami, non aveva col marito un rapporto sereno. Ricordo che la sera che ha seguito la mia Cresima (aprile 1943) la zia si è rifugiata in casa nostra dopo essere scappata dal marito, che l'aveva picchiata selvaggiamente; non voleva più tornare con lui, ma dopo un paio di giorni Beltrami è venuto a  riprenderla. Oltre ad essere violento, aveva anche l'amante: così si diceva; certo è che i due si sono separati, quando anche Carmen si è innamorata ed è andata a convivere con un milite della Guardia Nazionale Repubblicana. Erano gli ultimi mesi di guerra; la zia parlava spesso di armi che il nuovo compagno della figlia teneva in cantina... e lei non era d'accordo... sembra anche che raccontasse ai partigiani di questo fatto...
    Ma sa, i ricordi sono quelli di una bambina, e quindi molto confusi. Carmen abitava a Rivalta: il 25 o 26 aprile è venuta a Reggio: non ha più fatto ritorno. So che è stata arrestata e che doveva essere portata ai «Servi»; è stata uccisa (in via Castelli?) insieme ad altre 7-8 persone e mia madre ha visto il cadavere nel cimitero Monumentale di Reggio.
    La nonna raccontava che era venuta a Reggio per consegnare ai partigiani quelle armi che aveva visto in cantina. Per questo ed altri motivi, la mia famiglia, che era cattolica praticante, e che era lontana da ogni violenza, ha vissuto mesi, anni di paura.
    In casa nostra non ci sono mai state tessere di appartenenza politica: eravamo contadini, poveri, ma tranquilli e lavoratori; abitavamo a Pieve Rossa di Bagnolo, in una zona molto "calda". Ricordo che, dopo la Liberazione, c'erano degli esaltati che ci facevano paura perché si andava a messa. Quando c'erano le processioni della Madonna Pellegrina, che seguivamo da una frazione all'altra, bisognava stare in gruppi, sia all'andata che al ritorno, perché avveniva spesso che gli estremisti comunisti minacciassero i solitari e... non si limitassero alle parole! Questo era il momento, che è durato un bel po', e che ci faceva vivere in uno stato di grande ansia e timore. Prima timore dei fascisti, poi dei comunisti! E, negli ultimi mesi di guerra, paura di tutti e due; una mattina del marzo 1945, siamo stati svegliati da 15 partigiani che avevano circondato la nostra casa, in via Beviera n. 46: sono entrati, e, dopo aver mangiato e bevuto, sono andati con le mitragliette sul granaio, aspettando che passassero i tedeschi: per fortuna questo non è avvenuto, perché di sicuro avremmo avuto la casa bruciata e forse avremmo perso anche la vita! Noi eravamo tutti in cantina, nascosti sotto il serbatoio dell'acqua: pregavamo piano, terrorizzati. Ma la Madonna ci ha aiutati. In campagna, i contadini cattolici come noi hanno temuto più i partigiani dei fascisti: le spiego il perché. I militi fascisti venivano da noi solo per controllare, durante la trebbiatura, che il grano raccolto andasse all'ammasso. E poi, durante la vendemmia, per il vino: ma devo dire che non ci hanno mai messo in condizioni di temere per la vita. Fatti i loro controlli, se ne andavano con le loro motociclette senza offendere o prendere niente. Diverso era il comportamento degli altri: probabilmente sarà stata la causa per cui combattevano, ma i modi... quello di mettere sempre a repentaglio la vita di civili, di bimbi, di donne che chiedevano solo di essere lasciati in pace...
    Guardi, le voglio raccontare un altro episodio, significativo a questo proposito. Nell'autunno 1944 alcuni contadini delle zone intorno a casa mia, portavano a Reggio il vino (dentro le botti) da consegnare all'ammasso. Era l'alba, e noi sentivamo i carri passare trascinati da cavalli: ad un certo punto sono sbucati dei partigiani - sembrava dal nulla - e, sparando, hanno bucato le botti, facendo fuoriuscire tutto il vino che si è disperso a terra. Dopo questo atto, si sono dati precipitosamente alla fuga. Due ore dopo sono arrivate due camionette tedesche: i militi volevano sapere da dove erano sbucati i partigiani; i conducenti dei quattro carri, allora, hanno sostenuto che provenivano dai campi. Se per caso avessero detto che sbucavano dal retro di una casa, la stessa sarebbe stata bruciata, ed i legittimi proprietari o uccisi o portati in carcere! In ogni modo, in seguito a questa "bravata", sono stati prelevati dal carcere di Reggio 8 prigionieri, portati nel cimitero di S. Michele di Bagnolo, ed ivi uccisi. Noi si era terrorizzati; non mi stancherò mai di ripeterlo. Siamo passati da un regime di paura ad uno di terrore. E questo è durato molti mesi, per anni; dopo l'attentato a Togliatti (14/6/48), i comunisti non ci lasciavano lavorare nei campi, perché c'era lo "sciopero obbligatorio". Allora noi ci alzavamo alle 3 o alle 4 per lavorare col buio, ma sempre con la paura che ci scoprissero. Chi erano questi "guardiani"? Li conoscevamo tutti, perché era gente del posto; molti di loro, i più arroganti e prepotenti li conoscevamo per essere stati, durante il regime, i più arroganti anche allora... Si erano cambiati, alla svelta, la camicia, da nera a rossa... ma il "garbo" era lo stesso! Ricordo che questo era il cruccio del mio povero padre, che non si dava pace per non poter svolgere il suo lavoro nei campi; diceva: "...Mo guarda lè... fin a ier paseven cun al gagliardat... adassa ia van cul la camisa ròsa...".
    Sì, la nostra è stata una terra che ha visto molte ingiustizie e molte assurdità: ma è la guerra civile che porta gli uomini a commettere dei fatti senza senso ed a perdere ogni umanità. Tanto è stato detto, ma tantissimo è rimasto nell'ombra, nella memoria contadina che spesso è riservata, timida, caratterizzata dal pudore che contraddistingue i semplici ed i poveri. Ma tacere non vuol dire aver dimenticato; tacere non significa non capire... Anzi, di questi tempi, a me, umilmente, pare che quelli che parlano di più spesso abbaiano alla luna...»   
Dott. Filippo Silvestro, classe 1940
 
 
    «Pur essendo di origini meridionali, la mia famiglia è arrivata a Reggio Emilia nel 1939 proveniente da Pola, ove mio padre, Vincenzo, era capo-sarto militare, nel corpo dei Bersaglieri. Quando il reparto si trasferisce, oltre alla mia famiglia, viene a Reggio Emilia anche una sorella del papà, Pietrina, sposata con Salvatore Ballarino, ed il loro unico figlio, Angelo. E', la mia, da sempre, una famiglia che ha tradizioni militari; d'altra parte, nel sud, per sopravvivere, come tutti sanno, l'esercito è stato una delle poche possibilità. E così, un poco per consuetudine, ma soprattutto perché obbligati dalle necessità, sia mio padre che mio cugino portavano la divisa: Angelo, nel 1943, si era iscritto nella Guardia Nazionale Repubblicana e quindi comandato nella Compagnia "Ordine Pubblico", situata in corso Cairoli, ove attualmente ha sede il comando dei Carabinieri. Era un ragazzone allegro, pieno di voglia di vivere, anche un poco ingenuo: almeno questo emerge dai ricordi di chi lo ha conosciuto. Abitava in via Poli, con la madre ed il padre, quando durante lo spezzonamento del 14 maggio 1944 lo zio Salvatore è rimasto ucciso. Da quel momento, la vedova Ballarino ha riversato tutto il suo amore, diventato quasi ossessivo, sull'unico figlio, Angelo appunto. Molto confusamente, ma ricordo di cene insieme, perché poi mio padre cercava di fare le veci del cognato; ricordo che quando veniva da noi, mi prendeva a cavalluccio sulle spalle e mi faceva giocare: ricordo, e questo più chiaro, il suo allegro scampanellare, il salire le scale e, appena entrato, il calore della sua risata argentina quando io, curiosamente, cercavo nelle sue tasche la stecca di liquirizia che egli vi nascondeva!
    Il giorno della Liberazione, il 25 aprile 1945, in città si svolgeva una sfilata; doveva essere un giorno di festa per la fine della guerra, ed è stato invece l'inizio di una mattanza che ancor oggi i reggiani ricordano con orrore. Una mattanza che è durata mesi, anni. Mio padre, Angelo e la signora Giordano, capo-calzolaio dei Bersaglieri alla caserma «Cialdini», collega del papà, erano in via Emilia per partecipare, come tutti, alla sfilata insieme alla popolazione festosa; dalla folla si leva una voce stridula, isterica, lacerante che grida: "...Quello è il fascista Ballarino...!" Alcuni lupi inferociti da quelle parole sono piombati addosso ad Angelo, e, malmenandolo brutalmente, l'hanno condotto alla sede del comando partigiano, presso l'attuale caserma "Zucchi".
    Immediatamente mio padre vi si è recato, cercando di parlare con i comandanti, per spiegare l'incredibile equivoco che aveva condotto il nipote al comando; un equivoco che si chiamava omonimìa; infatti, a Reggio aveva operato - e con mano pesante - il Colonnello Anselmo Ballarino, Comandante Provinciale della Guardia Nazionale Repubblicana, che però, con Angelo, non aveva nulla in comune, salvo il cognome...
    Quel giorno sono stati arrestati centinaia di uomini: in caserma c'era ressa, caos, addirittura... mio padre si è recato allora alla "Zucchi", per vedere di chiedere aiuto a qualche graduato, per spiegargli l'assurdo arresto, ma, purtroppo, nessuno l'ha potuto - o voluto - aiutare. La mattina seguente, prestissimo, di nuovo al comando partigiano; sorpresa: Angelo Ballarino, insieme a decine di altri uomini, era stato caricato su di un camion, la sera precedente, e portato ad ignota destinazione. Incredibile. Ho poi saputo che l'"ignota destinazione" erano le fosse comuni della bassa reggiana, previo un giretto alle "case della morte" di ben triste conoscenza, oppure qualche sperduta concimaia, dove spesso i poveri prigionieri venivano sepolti vivi...
    Io, della giustizia partigiana, ho quel ricordo qui. Mia zia, che in un anno ha perso marito e figlio, si è ammalata di una profonda depressione, mai guarita, che l'ha accompagnata alla tomba. La mia famiglia sconvolta. Io ancora - e sono passati 52 anni - domando ai reggiani: dov'è il cadavere di mio cugino Angelo Ballarino la cui unica colpa è stata quella di portare quel cognome? Attendo risposta, ben sapendo che non verrà mai. Gli assassini sanno il perché. Ma non solo loro.»

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